Tre sguardi sull’America Latina

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tresguardi sullamericalatinaPubblichiamo la prima parte di un articolo che sarà presente nel prossimo numero di CineCritica, versione cartacea( numero 52). Si tratta di tre tentativi di raccontare storie e vicende sull’America Latina senza conformismi e censure.

È decisamente complicato nel terzo millennio riuscire a parlare di America Latina senza inciampare in quegli stereotipi e in quei luoghi comuni che hanno accompagnato per molti anni anche lo sguardo, pur attento e teoricamente sensibile, di numerosi autori cinematografici.
Il pericolo più grande è quello di avvicinarsi a un universo molto complesso con quello che potremmo definire atteggiamento colonialista, atteggiamento (spesso inconsapevole) che troppe volte è stato accostato a tematiche di enorme spessore come la sofferenza degli individui, l’ingiustizia sociale, la povertà, lo sfruttamento, la violenza politica, i regimi dittatoriali.
La questione è imbarazzante poiché, in qualche caso, anche cineasti di un certo livello si sono accostati a tali problematiche con una sorta di impostazione consolatoria che, nelle loro opere, tendeva ad alimentare la distanza “effettiva” tra lo sconquassato e violentato mondo latinoamericano e le società europea e nord americana piuttosto che a individuare un punto di reale vicinanza.. Queste due realtà geopolitiche, in verità, non sono state mai distaccate, per molti motivi. In primo luogo per l’afflusso di intere generazioni di europei, a cominciare dagli italiani, che hanno visto nei territori dell’America Latina uno spazio da colonizzare, e in seguito da utilizzare, per questioni prettamente economiche e in secondo luogo perché alcuni equilibri internazionali sono stati determinati da manovre geopolitiche, il più delle volte ambigue, che hanno generato un evidente e duraturo disagio di quasi tutte le popolazioni locali. Negli ultimi anni il “sistema cinema” mondiale sembra aver preso maggior coscienza di questa relazione non sempre limpida tra cinema europeo-nordamericano e realtà dell’America Latina, grazie a lavori di cineasti e documentaristi che mettendo da parte il loro ego creativo hanno provato con grande umiltà e autentico desiderio di solidarietà a far emergere storie, racconti, sentimenti che negli ultimi tempi sembravano confondersi all’interno di un labirinto comunicativo sempre più oscuro e indecifrabile. La memoria degli accadimenti degli ultimi quaranta anni in America Latina si è in questo primo decennio del terzo millennio vaporizzata, è stata assorbita dal meccanismo comunicativo-mediatico contemporaneo, meccanismo destinato a stimolare consumo iper veloce di comunicazione più che produzione-fruizione razionale di informazione.

Il film di finzione di Marco Bechis Birdwatcher – La terra degli uomini rossi, che utilizzeremo come trampolino di lancio per una riflessione critica sul cinema documentaristico di oggi, è in tal senso emblematico. Ha infatti riportato a galla, con efficace forza espressiva, una vicenda tuttora in pieno svolgimento, vicenda che appare al giorno d’oggi quasi totalmente dimenticata proprio dai mass media. La questione riguardante il disboscamento della foresta amazzonica e la feroce, quanto fintamente morbida, deportazione di popoli dell’Amazzonia ridotti a vivere in riserve-ghetto e a guadagnarsi il pane tristemente alimentando i consumi del turismo colonialista di massa è di gigantesca portata e obbliga noi europei, ma anche i nord americani, a cercare di comprendere i fattori di un processo che appare del tutto inarrestabile e in espansione e che cancella tradizioni, usi, costumi, idee con un cinismo spaventoso. Bechis possiede sguardo lucido e spalle forti e dunque ha preso con questo suo lungometraggio il carico della responsabilità di far ripartire un dibattito sul mondo latinoamericano che, a causa degli eventi storici degli ultimi anni (terrorismo internazionale, 11 settembre, globalizzazione, problemi economici,) sembrava divenuta una questione di secondaria importanza. Con Birdwathers – La terra degli uomini rossi, Marco Bechis è arrivato fino al cuore della faccenda delineando con incredibile nettezza la totale incomunicabilità tra popolazioni indigene (brasiliane) e ceti bianchi dominanti. Questi ultimi provenendo da una cultura, seppur trasferita da intere generazioni in America Latina, di stampo colonialista non possono comprendere l’importanza che i luoghi e la terra hanno per gli autoctoni. Nell’opera di Bechis, all’affermazione di un latifondista bianco che sosteneva di essere nato lì, l’indigeno ribelle risponde senza una parola: con gli occhi e, molto semplicemente, mangiando la terra che aveva appena calpestato. Ebbene, in questa scena centrale risiede il fulcro espressivo e contenutistico di Birdwatchers – La terra degli uomini rossi. L’autore evidentemente avverte un legame forte con il continente in cui è nato, ma allo stesso tempo deve gestire artisticamente e emotivamente la sua condizione di individuo con un’anima divisa in due parti: una latinoamericana, l’altra europea. Il discorso si articola in maniera forse ancora più intensa in tre documentari che ultimamente ci hanno parlato di America Latina. I tre lavori (i primi due sono stati presentati alla 65a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, nella sezione Orizzonti) prendono come spunti di partenza tre visioni diverse, tutte non superficiali. Attraverso dispositivi espressivi e stilistici differenti riescono a far emergere angolazioni e storie che non sono poi così separate. L’impostazione diaristica e autocritica dell’americano Ross McElwee sul Paraguay, quella più consapevolmente partecipativa del messicano Eugenio Polgovski sulla condizione del proprio popolo, quello messicano, quella più umana e legata alla memoria dell’italiano Daniele Cini sull’Argentina di oggi e di ieri.

Ross McElwee è un documentarista molto attivo negli Stati Uniti d’America dove ha ricevuto numerosi premi per la sua attività Nel suo film, intitolato In Paraguay, l’autore ha tentato di intrecciare due livelli narrativi e comunicativi, non però con uno scopo puramente tecnicistico. Da un lato questo documentario è una sorta di diario personale riguardante il tentativo di adottare, secondo un sistema assolutamente legale, un bambino paraguayano. Dall’altro, è uno sguardo autocritico sulla dimensione esistenziale, sociale ed economica nell’ambito della quale sono costretti a vivere i paraguayani. Si tratta di cittadini sostanzialmente ostaggio di un architettura geopolitica che sacrifica il livello di vita degli esseri umani e il loro tasso di libertà a favore di una ragion di Stato tirannica, gestita con molto acume e parecchia freddezza dagli USA e da un governo locale compiacente (ultimamente invece Venezuela e Bolivia si stanno sottraendo, forse in maniera un po’ scomposta, a questo abbraccio mortale). Le lunghe giornate passate nei tribunali di Asuncion e in un modesto residence, la speranza di vedere riconosciuto un diritto, la fine di un percorso umano intenso e per certi versi drammatico, sono tutti fattori che McElwee non disgiunge dalla sua funzione di analizzatore di una realtà molto precisa. La sua condizione di uomo bianco ricco, americano, è collocata al centro di un universo in cui regna la povertà e la sofferenza. L’autore si interroga costantemente e con sincera partecipazione sul problema delle conseguenze che la politica del suo paese ha determinato non tanto su uno Stato ma su un intero popolo: su donne, bambini, anziani, famiglie. Le giornate sono scandite dallo sviluppo lento e contraddittorio della burocrazia paraguayana mentre all’interno dell’Ambasciata Usa si svolgono feste e banchetti. L’Ambasciata degli USA sembra uno Stato nello Stato, luogo simbolico ma anche effettivo di sopraffazione. A tal proposito, appare assolutamente significativa la lunga sequenza nella quale il regista percorre con la sua automobile il perimetro della sede diplomatica. Muri lunghissimi di cui non si intravede mai la fine e una voce fuori campo che si interroga sulle motivazioni dell’edificazione di questa struttura così sproporzionata rispetto alla grandezza e all’apparente importanza strategica del Paraguay. Quelle pronunciate dalla voce off di McElwee non sono ovvietà politiche o considerazioni retoriche. Tutt’altro. Si avverte invece l’esigenza da parte del regista di comprendere più a fondo le ragioni di una situazione incredibile, anche prendendo in considerazione gli eventi storici che hanno accompagnato la storia del Paraguay. McElwee adotta per questo suo film uno stile pulito, semplice, diretto, privo di orpelli linguistici e tutto teso a evidenziare la sua personale riflessione sulla sua condizione inevitabile di individuo proveniente da una società colonialista che cerca di avvicinarsi umanamente alla gente del Paraguay. Tutto sembra determinato da una connessione profonda tra il senso dell’attesa e la volontà da parte dello stesso cineasta di non considerare il Paraguay solo come una terra di conquista, o semplicemente luogo dove si acquisisce un nuovo sentimento, ma spazio esistenziale denso di dolore diffuso e di disagio collettivo. L’impostazione espressiva e narrativa di Ross McElwee è dunque quella del diario interiore, nell’ambito del quale la riflessione politico-filosofica sulla situazione paraguayana si fonde con la cronaca dei piccoli eventi giornalieri e all’analisi sociologica. Secondo l’autore del film, la condizione di degrado che si vive in Paraguay è stata provocata senza ombra di dubbio dall’aggressiva e spregiudicata politica estera degli USA. Sinceramente sappiamo poco di ciò, ma è la voce stessa del regista a snocciolare quasi sottotono le ragioni strategiche che hanno portato a tale sfruttamento.Alla fine, il documentarista e la sua compagna riusciranno dopo mesi di attesa a portare a termine il percorso burocratico/amministrativo per arrivare all’adozione definitiva della piccola Mariah, la bambina che vogliono crescere, educare, amare. Sarà una gioia, quella di McElwee e di sua moglie che però si spegnerà nell’angoscia che scaturisce dalla visione costante della povertà.

Nel comportamento di Ross McElwee non c’è mai però un’espressione di pietà. Prevale invece la sofferenza soggettiva e familiare, l’autocritica e il desiderio di non considerare questa terra dimenticata da tutti solo come zona di passaggio nella quale esercitare il moderno potere colonialista dei soldi e della ricchezza.


di Maurizio G. De Bonis
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