Theo Anghelopoulos. Scompare uno dei grandi autori del cinema contemporaneo
L’improvvisa scomparsa di Theo Anghelopoulos costituisce, per l’arte filmica e per la cultura in generale, una gravissima perdita; per me, che lo conoscevo da più di quarant’anni, che gli ero affettuosamente amico e che pertanto ho avuto più volte la fortuna di dialogare con lui è, prima di tutto, un lutto personale molto doloroso che, mentre non mi consente, in questo momento, di ripensarlo con il dovuto distacco critico che merita la sua opera tanto alta e complessa, mi spinge, nello stesso tempo, a ricordarlo con urgenza, come se questo nostro dialogo potesse continuare. E’ con questi sentimenti contrastanti, e per sentirmi ancora vicino a Theo, che riprendo qui una breve nota scritta come presentazione di un convegno a lui dedicato, che il SNCCI, in collaborazione con il Festival del Cinema Europeo, organizzò nel 2007 a Lecce, nell’ambito di questa manifestazione.
Alla fine degli anni Settanta una rivista francese organizzò un referendum tra i critici cinematografici di diversi paesi del mondo per individuare il miglior film girato in quel decennio. Vinse con largo scarto, e non fu una sorpresa, O thiasos (La recita), opera terza di Theo Anghelopulos. La sorpresa, semmai, c’era stata qualche anno prima, al Festival di Cannes del 1975, quando il film, girato l’anno precedente, venne presentato nella sezione collaterale “Quinzaine des Réalisatuers”. Sorpresa perché questo film si impose subito come un “capolavoro assoluto”, per usare la definizione un po’ enfatica cui ricorre, forse troppo spesso, certa critica cinematografica francese, ma che in questo caso risulta del tutto appropriata; sorpresa anche perché i due precedenti lungometraggi di Anghelopoulos (Ricostruzione di un delitto e Giorni del ’36), pur apprezzabili per diversi motivi, non lasciavano tuttavia presagire una personalità autoriale così straordinariamente dotata come quella che, appunto, si rivela con La recita; sorpresa, infine, perché nel suo paese d’origine – la “Grecia dei colonnelli”, una dittatura militare – sembrava impensabile la nascita di un’opera tanto libera creativamente quanto impegnata ideologicamente. Se il cinema degli anni Sessanta, forse il periodo più ricco e innovativo della sua storia artistica e culturale, viene oggi ricordato, soprattutto, per la fioritura delle diverse nouvelles vagues e per gli esordi di tantissimi registi diventati subito importanti (da Godard a Resnais, da Tarkovskij a Rocha, da Pasolini a Bellocchio a molti altri ancora), il cinema degli anni Settanta, osservato dalla stessa prospettiva, appare principalmente qualificato, pur nell’ambito di un più generale clima di riflusso, dalla nascita del nuovo cinema tedesco e dall’avvio della prestigiosa carriera di un regista come Anghelopulos, annoverabile tra i maggiori di tutti i tempi.
Dal 1970 (l’anno del suo esordio) sino a oggi, Anghelopoulos ha diretto dieci film, dunque uno ogni tre/quattro anni. Pur considerando che alcuni di essi hanno una durata molto lunga, questa media rimane piuttosto bassa. Ciò in parte è dipeso da difficoltà oggettive, ma è dovuto anche alla minuziosa cura dei preparativi, alla complessa orchestrazione di tanti elementi compositivi, insomma al sempre perseguito ideale di perfezione che caratterizza i suoi film. Il rispetto sempre manifestato da Anghelopulos verso il proprio lavoro, sentito e vissuto in modo totale e rigoroso come un alto compito etico oltre che come espressione della propria visione del mondo, comprende anche il rispetto nei confronti dello spettatore, cui lo stesso regista sembra chiedere una speciale collaborazione, ovvero, un’attività ermeneutica, a volte anche difficile, ma che alla fine può comportare, assieme al “piacere del testo”, un sorta di apporto creativo: lo spettatore come co-autore.
Sul cinema di Anghelopoulos, per cercare di meglio sondarlo e capirlo, si sono spesi molti aggettivi, si sono avanzate molte definizioni. A noi sembra che il termine che lo connota con più esattezza e pregnanza sia quello che viene subito in mente, cioè quello di grande. Il cinema di Anghelopoulos è grande: grande nella concezione e grande nell’esecuzione. Anche nei film dove magari è avvertibile qualche indugio manieristico o qualche eccesso di oscurità, si avverte sempre che questo cinema appartiene all’ordine della grandezza, in cui sono comprese la compiutezza formale, lo spessore culturale, la sostanza discorsiva, dunque sono compresi il bello e il vero. Per parlarci dei destini dell’uomo e della dialettica della realtà, Anghelopulos, erede consapevole della millenaria tradizione ellenistica, interroga e coinvolge il Mito e la Storia, ricorre al Teatro e all’Epica, utilizza magistralmente tutte le risorse del linguaggio filmico (i suoi piani sequenza ormai famosi come quelli di Antonioni o di Jancsó…), coniuga il classico e il moderno, il pubblico e il privato. I suoi film si presentano anche come viaggi iniziatici che ci fanno scoprire, o riscoprire, nuovi “spazi”, esteriori e interiori; il suo cinema ci comunica moltissimo e, insieme, lascia positivi margini di ambiguità e mistero che continuano a sollecitare le nostre facoltà interpretative.
di Bruno Torri