Autobiografie contemporanee: The Fabelmans e i suoi “fratelli”
Boris Schumacher prende spunto da The Fabelmans, di Steven Spielberg, per riflettere sulle tendenze del cinema contemporaneo.
Nel cinema degli ultimi anni notiamo una tendenza sempre più diffusa, soprattutto tra i registi e gli autori affermati. In tanti stanno ripercorrendo, attraverso le loro opere, la loro infanzia e giovinezza. Sembra essere un bisogno e un’esigenza che coinvolge sempre più cineasti, a partire da Alfonso Cuaron che nel 2018 portò a Venezia Roma, dove ripercorreva la vita della sua famiglia a Città del Messico nei primi anni ‘70, con cui vinse il Leone d’Oro e in seguito l’Oscar per la miglior regia e per il miglior film internazionale. In seguito abbiamo avuto È stata la mano di Dio, Leone d’Argento a Venezia, dove Paolo Sorrentino ha messo in scena gli anni della sua adolescenza segnati dalla tragica morte dei suoi genitori, nell’anno del primo scudetto del Napoli di Diego Armando Maradona, a cui il regista partenopeo, in pratica, deve la vita. Infatti, come molti già sapevano o hanno appreso dopo la visione del film, il giovane Sorrentino non andò coi genitori nel fine settimana in cui persero la vita a causa di una fuga di monossido di carbonio nella casa di montagna a Roccaraso, per seguire il suo Napoli impegnato in trasferta contro l’Empoli.
È stata la mano di Dio è un film dal carattere prettamente autobiografico, in cui il cineasta partenopeo, uno dei nostri registi di punta e maggiormente conosciuti all’estero, si mette sorprendentemente a nudo, visto il suo carattere piuttosto schivo e riservato. Un’elaborazione del lutto, trasposta sullo schermo con grande coraggio e sincerità, nel pieno della maturità artistica di Sorrentino. Sempre nello stesso anno, il 2021, Kenneth Branagh in Belfast ha raccontato la sua infanzia nella capitale dell’Irlanda del Nord, che lasciò a nove anni, nel 1969, per fuggire con la sua famiglia dai Troubles, gli scontri fratricidi tra cattolici e protestanti, e trasferirsi a Londra.
Solo nell’ultimo anno, inoltre, sono usciti almeno tre film autobiografici: Apollo 10 e mezzo di Richard Linklater, uno dei registi più famosi del cinema indie americano (Boyhood, la trilogia composta da Prima dell’alba, Prima del tramonto e Before Midnight), dove dalla Belfast del ‘69 ci spostiamo alla Houston dello stesso anno, col regista americano che all’epoca aveva dieci anni, intento a dar vita ai suoi sogni e alle sue fantasie da bambino sui viaggi nello spazio (il 1969 è l’anno del primo allunaggio). In Armageddon Time di James Gray, un film bellissimo passato purtroppo in sala nel disinteresse generale, il regista americano ripercorre gli anni della sua preadolescenza, nella New York dei primi anni ‘80 in cui le tensioni razziali sono ancora predominanti e l’amicizia tra un ragazzino ebreo di dodici anni, ovvero lo stesso James Gray magnificamente interpretato dal giovane e talentuoso Banks Repeta, e un suo coetaneo afroamericano non è vista di buon occhio dalla sua famiglia e dal mondo circostante.
Il cinema contemporaneo denota quindi una spiccata e marcata tendenza all’autobiografia, al bisogno di raccontarsi in prima persona, per ripercorrere le proprie origini e gli anni formativi che in alcuni casi hanno contribuito a far intraprendere agli autori appena menzionati la strada del cinema e la carriera da regista. Lo fa anche Tarantino in Cinema Speculation, il suo ultimo libro pubblicato pochi mesi fa in Italia da La nave di Teseo, partendo proprio dalle sue visioni in sale affollatissime e rumorosissime, quando aveva solo 7-8 anni in compagnia dei genitori, per poi lanciarsi in un’analisi approfondita e appassionata del cinema americano che più lo ha formato e influenzato.
E veniamo adesso al più maturo e consapevole di tutti, Steven Spielberg, il più famoso e anziano del gruppo (è del 1946 mentre gli altri registi citati in precedenza sono nati tra la fine degli anni ‘50 e l’inizio dei ‘70). In The Fabelmans, il regista di Duel, E.T. l’extra-terreste, Lo Squalo, Schindler’s List e Jurassic Park ci racconta gli anni della sua infanzia e adolescenza, che lo hanno portato a innamorarsi del cinema e a intraprendere la carriera da regista. Si tratta di un omaggio sentito, intimo, appassionato e commovente alla sua famiglia, in cui il grande regista americano, l’unico finora a essere stato nominato agli Oscar come miglior regista per sei decenni consecutivi (dagli anni 70 fino ai giorni nostri), si mette a nudo con coraggio, maturità ed estrema consapevolezza. Il film si apre col piccolo protagonista, ovvero lo stesso Spielberg, che si reca al cinema coi suoi genitori a vedere Il più grande spettacolo del mondo di Cecil B. DeMille (1952). Il primo film che segnerà e fonderà il suo immaginario, a partire dalla sequenza spettacolare dell’incidente ferroviario che il piccolo Sammy Fabelman, alias Steven Spielberg, replicherà più e più volte coi modelli dei trenini nella sua cameretta. Dalla prima visione al cinema nascono il suo stupore e la sua meraviglia, ben visibili nei suoi occhi spalancati, e la sua passione per la Settima Arte.
Il cinema, tra le tante cose, mira ad affabulare lo spettatore e non è un caso se la famiglia che dà il titolo al film si chiama The Fabelmans, che altro non è se non la famiglia del regista (Fabel in inglese si pronuncia come Fable, favola). Spielberg rende omaggio alla sua famiglia senza abbellirla o edulcorarla, a pochi anni di distanza dalla morte della madre (2017) e del padre (2020). Anzi, ce la mostra in tutta la sua fragilità e vulnerabilità, a cui non rimane estraneo il giovane protagonista che grazie alla sua passione innata per il cinema scoprirà un segreto che lo farà soffrire ma anche crescere e maturare prima del previsto. Il film è anche un omaggio nostalgico a un cinema che non c’è più, ai numi tutelari di Spielberg come John Ford (in una scena lo Spielberg adolescente va in sala con gli amici a vedere L’uomo che uccise Liberty Valance), alla sua componente artigianale (la pellicola da tagliare e il suo montaggio che richiede tempo, pazienza e manualità) realizzato dall’ex re Mida di Hollywood a cui il pubblico americano, purtroppo, sembra aver voltato le spalle dopo i due flop al botteghino di West Side Story e, appunto, del medesimo The Fabelmans.
di Boris Schumacher