Stile e scrittura nel cinema di Nicolas Philibert

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stileescritturanelcinemaPhilibert ha fatto sua l’espressione «programmare il caso». Lungi dall’essere un piano programmatico che sottenda ad un metodo strutturato, una ricetta da ripetere in ogni situazione e film, una strategia di trattamento di un soggetto che possa divenire strumento seriale equivalente in ogni pellicola di Philibert, questa espressione riesce ad essere la definizione migliore – posto che sia utile avvalersi di definizioni – per descrivere la complessità dell’opera del cineasta francese.
La questione dell’improvvisazione, associata alla capacità performativa di chi concretizza l’azione in immagini su pellicola, non è sicuramente nuova, ma applicata al cinema documentario, soprattutto a quello messo in atto da Philibert, riveste una forma di rinnovamento che richiama alle esperienze di radicalità estrema non solo in campo cinematografico (si pensi alle varie esperienze del diretto per quel che concerne al documentario o alla nouvelle vague per quanto riguarda la fiction), ma arriva ad abbracciare numerosi campi dell’arte e della socialità in genere.
Quest’idea del lavoro e questo approccio alla materia da trattare richiamano in qualche modo gran parte dell’esperienza delle avanguardie del XX secolo, che hanno fatto della demistificazione del ruolo dell’artista e delle infinite possibilità combinatorie del caso uno degli elementi più dirompenti del fare e del comunicare del secolo appena concluso. Al di là di esperienze datate e confinate nello spirito di un’epoca, circoscritte e definite nel tempo e nello spazio, il confronto con il caso e l’improvvisazione – come si vedrà – risulta ancora oggi una pratica artistica di assoluta valenza e interesse.

«Ed ecco che i situazionisti e in genere le controculture rimettono in gioco la sorpresa, che tanto piaceva a Guillaume Apollinaire, l’improvvisazione su cui si basava il teatro futurista sintetico, elementi che tra l’altro rivivono negli spettacoli del Living Theatre (ogni rappresentazione di Paradise Now è diversa). Il caso è pure la cifra essenziale della ricerca musicale di John Cage, che fa dell’eliminazione dell’io un vero sistema, utilizzando liberamente suoni concreti e fattori accidentali. “Tutto ciò che esiste nell’universo è frutto del caso e della necessità”, diceva Democrito, un principio a cui il premio Nobel per la fisiologia, Jacques Monod, si è ispirato per il titolo di un suo studio, in cui dimostra l’incidenza del caso nella biologia. […] In arte, il principio di indeterminazione è applicato dagli artisti cibernetici a tra gli altri da Jean Tinguely, che teorizza “l’uso funzionale del caso”».

C’è una sorta di profondo convincimento in Philibert che lo porta ad allontanarsi dalla costruzione, dal progetto, dal prendere troppo sul serio il compito classico del cineasta (figura che tutto controlla e che tutto deve prevedere in anticipo), che richiama la logica delle avanguardie, dello spirito dadaista dello sberleffo e delle combinazioni imprevedibili. Questa modalità di scrittura artistica, per altro, diviene il grimaldello per affrontare nel modo più corretto, libero e onesto un racconto sulla realtà, nel quale il regista non si pone al di sopra degli oggetti filmati, ma a fianco di essi, costruendo insieme a loro la sintassi del film, i suoi momenti e punti nodali senza alcuna precedente preparazione, ma piuttosto dal vivo, lasciando fluire le cose, in alcuni casi inseguendole, in altri provocandole, ma sempre ricordando di aggiungere passo dopo passo il materiale del proprio amalgama per comporre l’insieme dei propri testi, ogni volta l’unico film possibile.
Le pellicole di Philibert appaiono se non esemplari, quanto meno paradigmatiche per spiegare la capacità del proprio cinema di divenire opera nel mentre stesso che viene impressionata la pellicola, nel medesimo momento che la macchina da presa si approssima ai propri soggetti; gli esempi, infatti, abbondano in tale quantità e qualità da divenire la vera e propria cifra stilistica del Philibert autore, del Philibert cineasta.
Per addentrarci in esempi che più chiaramente illustrano questa capacità, si guardi a La Ville Louvre: il film, nato da una serie di concatenazioni e volontà più o meno casuali, è caratterizzato da una “comicità e impertinenza” che conquistano l’occhio, forse proprio perché rappresentano un approccio radicalmente differente da quello che ci si potrebbe aspettare al cospetto del complesso museale più famoso e solenne al mondo. Al tempo stesso, e qui sta una delle radici culturali della pellicola, è un canto d’amore e riconoscenza appassionato al valore del museo nato contemporaneamente alla Rivoluzione Francese che, al di là dal rappresentare il ladrocinio napoleonico di manufatti artistici e storici di tutto il mondo, è un insieme unico di opere concentrate e disponibili alla visione, oltre che un processo inesauribile e titanico di memoria e conservazione.

Alain Resnais, nel 1956, in Toute la Mémoire du Monde attraversa la Biblioteca Nazionale di Parigi: nella sua pellicola si esplorano i rituali della classificazione e della conservazione (come in parte fa Philibert con il Louvre e la Galleria Zoologica del Museo di Storia Naturale di Parigi); d’altra parte, però, Resnais inscrive questa istituzione oltre i confini umani, consegnandola nella zona d’ombra dell’oblio e della dimenticanza, diventando questa mole di materiali – sovraumana appunto – impossibile da controllare, fruire, godere. In Philibert, al contrario, il museo è un’esperienza sensuale, dove il compiacersi di tanta bellezza si confonde con l’ipnosi della vita vissuta, dove la magia della visione non si trasforma in spettacolo, ma in esercizio sensoriale completo: quanto di più umano si possa immaginare. In La Ville Louvre l’incontro tra prosaico e sublime genera un’alchimia magica, un equilibrio cinematico che la mdp di Philibert restituisce intatto, libero e controllato al tempo stesso, e l’esclusione dal film della torma di visitatori conferma questa sensazione di purezza e di stato di grazia. Un Animal, des Animaux, per altri versi, può essere visto attraverso il contrasto che ci procura il confronto con Historia Naturae (1967) di Jan Švankmajer, e La Jetée (1962) di Chris Marker.

Historia Naturae è un film di animazione che fa del gioco della classificazione il controcampo necessario alla visione antropocentrica che tutto contiene e fagocita, letteralmente, proponendo via via le varie classi e famiglie animali all’interno di uno schema sempre riconducibile al controllo umano, alla distopia della gestione e manutenzione dell’esistente da parte di una intelligenza superiore, di una razza eletta. La visione proposta da Švankmajer è, come per Philibert, colma d’ironia, cosciente dall’impossibilità di controllare l’universo. In netto contrasto però, bisogna evidenziare il ruolo dei veri e propri curatori e tecnici (i tassidermisti), che per Philibert gestiscono sì l’insieme dei corpi, ma ne restano quasi soggiogati, per la loro quantità e varietà, per il valore della responsabilità e la complessità dell’approccio che un compito del genere necessita e comporta.
In La Jetée troviamo un parallelo a questa modalità: vista da un futuro in cui la vita (umana e animale) risulta impossibile, l’avventura spazio-temporale all’interno della Galleria Zoologica (tra l’altro proprio quella di Parigi, pochi anni prima che venisse chiusa al pubblico) diventa possibilità esclusiva e privilegiata per assaporare l’intera cosmogonia della vita, liberata dall’esposizione meramente spettacolare, per farsi vera e propria memoria della terra, delle specie viventi. E’ la stessa soggezione che troviamo negli specialisti in tassidermia, insieme alla confidenza necessaria di un professionista, che ci permette di vivere con complessità questa visita: di nuovo, a muovere il cinema di Philibert sono gli incontri, i rapporti tra i soggetti (animati e non), e proprio queste relazioni riescono a rendere pulsante il ritmo delle sue opere.

«L’idea di girare una sceneggiatura dettagliata, in cui tutto è scritto in anticipo – la storia, i personaggi, i dialoghi – non mi attira. Ho preso gusto a una certa forma di improvvisazione, di libertà. Mi piace costruire un film facendolo, giorno dopo giorno, senza conoscerne il seguito, o la fine. E’ anche più fragile, ma è il procedimento che si adatta di più a me. Questa fragilità mi stimola, mi spinge ad andare al di là dei miei limiti. In realtà, non metto in discussione la fiction in quanto tale, ma la pesantezza che presuppone. Non mi vedo in mezzo ad una troupe di trenta persone, con un piano di lavoro».

Philibert ha la capacità di sintetizzare nel gesto della mdp (e certo, attraverso il montaggio) un insieme di sensazioni che conducono a una speciale filosofia, perché con i suoi testi filmici riesce a rendere un complesso di idee senza mai doverle esplicitare e spiegare: i suoi film riescono – con levità e chiarezza – ad immergersi in un contesto ed a renderne il senso profondo ed essenziale, ma contemporaneamente porta avanti altre operazioni. Questa capacità analitica non è infatti il solo pregio dello sguardo di Philibert, perché il regista francese rilegge il cinema e la sua storia attraverso le forme e i contenuti della propria produzione. Egli è cosciente dell’importanza della scrittura (e in qualche modo della retorica) nella determinazione del contenuto, o almeno della sua lettura: ecco che trovare connessioni con testi filmici fondamentali nella storia del cinema diventa sia un gioco e una sfida per trovare il modo giusto di esporre un argomento sia un modo per fornire nuove chiavi di lettura allo spettatore. Per Philibert non si tratta – in definitiva – di puro e semplice gusto per la citazione cinefila, ma di dare nuova vita a una materia sedimentata e stratificata nell’immaginario personale e collettivo, una materia che è al tempo stesso memoria e proiezione onirica: esiste miglior modo per manifestare l’amore per le immagini in movimento?

2. La pratica del diretto è un aspetto che si collega inevitabilmente all’opera di Philibert, a questo cinema realizzato al volo come La Ville Louvre e La Moindre des Choses. Leggere i film di Philibert come semplici esempi di diretto, però, rischia di essere esercizio rischioso e fine a se stesso. Molto più produttivo e conveniente, appare piuttosto, ragionare su come la pratica del diretto stimoli la produzione del cineasta francese, attraverso le proprie introversioni e inevitabili (anche se implicite) riflessioni sul medium che questa prassi è portata a fare. Il punto di partenza per un ragionamento epistemologico di questa portata non può che fare riferimento all’articolo Le retour par le direct di Jean-Luis Comolli pubblicato nel 1969 su due numeri dei Cahiers du Cinéma.

«[…] La menzogna fondamentale del cinema diretto è in effetti che si pretende di trascrivere effettivamente la verità della vita, che si dà al diretto come testimonianza e il cinema come registrazione meccanica dei fatti e delle cose. Mentre sicuramente, il fatto stesso di filmare costituisce già un intervento produttore che altera e trasforma la materia registrata. Fin dall’intervento della macchina da presa comincia una manipolazione; e ogni operazione – anche limitata alla sua ragione più tecnica: mettere in moto la macchina da presa, fermarla, cambiare l’angolazione o l’obiettivo, poi scegliere i giornalieri, poi montarli – costituisce, volente o nolente, una manipolazione del documento. Si ha un bel voler rispettare questo documento, non si può evitare di fabbricarlo. Esso non preesiste al reportage, ma ne è il prodotto».

Jean-Luis Comolli allude, chiaramente, all’impossibile trasparenza della mdp; l’occhio del regista prima (durante le riprese), e la sua mano, poi (nel corso del montaggio) sono elementi che trasformano la realtà bruta in elementi discorsivi, che mutano radicalmente la natura degli elementi in gioco, i quali – divenuti immagini – sottostanno a regole differenti da quelle del fluire del reale, perché sono diventati elementi (i fotogrammi) parcellizzati e scomposti di quella realtà, che sono ricomposti e ricombinati per rinascere come discorsi. Attenzione perciò a non confondere il cinema di Philibert con una ricostruzione fine a se stessa della realtà: il nostro non cerca altro che la possibilità di fornire una propria visione, la propria soggettività applicata a un determinato contesto o situazione; il cinema di Philibert appartiene a quell’esigua parte di discorsi filmici che cercano di persuadere lo spettatore che la proiezione, il testo, altro non è che una libera – e particolare – interpretazione di una data realtà attraverso la lettura del cineasta. L’aspetto bruto, di reportage (a livello del significante, cioè della forma del suo cinema), è in altre parole un aspetto estetico che si trasforma immediatamente in contenuto, in significato profondo del proprio narrare.
Nel cinema di Philibert, infatti, troviamo scene in cui si assiste a una realtà nel suo farsi e nel suo compiersi. Troviamo però altrettanti momenti dove esiste una qualche labile forma di mise en scène (si pensi ad alcuni momenti essenziali di La Ville Louvre) e ad altri dove si crea un dialogo tra il cineasta e i soggetti dei suoi film (come nelle interviste di o nei dialoghi spontanei tra Philibert e gli ospiti di La Borde). In alcuni casi si arriva perfino agli sguardi in macchina (Michel in La Moindre des Choses) e all’intromissione tra gli strumenti tecnici (di Florent, uno dei bambini protagonisti di Le Pays des Sourds).
Il cinema di Philibert, in altre parole, è una vera e propria espressione di soggettività che, liberata da vincoli e scuole, scrive i propri testi filmici scegliendo volta a volta quale tipo di intervento sia preferibile e migliore, relativamente a quelli a disposizione: silenzio o parola, lontananza o prossimità ai soggetti filmati, costruzione o improvvisazione. L’obiettivo che si pone questa scrittura per immagini è tutt’altro che la materializzazione di un’ideologia, quanto l’approssimarsi il più possibile ad una realtà (da parte della mdp), una scrittura che è cosciente del proprio potere e anzi è stimolata da questa realtà prossima; come se la definizione «non è né un documentario né una fiction, ma un film di cinema» di Un Animal, des Animaux valesse per l’intera cinematografia del cineasta francese e non per quel film.

Il rapporto con il cinema di Wiseman, per prendere ad esempio uno dei padri del diretto, assume in questa dimensione caratteristiche rinnovate e capaci di stimolare nuove riflessioni sul cinema di Philibert. Analizzare – seppur brevemente – la produzione di Philibert in contrasto (o in filigrana) rispetto a quella di Wiseman aiuta a meglio tratteggiare lo stile del cineasta francese, che ha sempre riconosciuto nel maestro statunitense grande rilevanza, considerazione e ispirazione. Perché, almeno apparentemente, queste due modalità di scrittura cinematografica hanno numerosi e profondi legami: entrambe le produzioni (di Wiseman e di Philibert) hanno un comune senso della visione, un approccio assimilabile, almeno in parte le medesime strategie sul set, un analogo rapporto con chi viene ripreso; in alcuni casi persino gli argomenti trattati, i soggetti dei loro film in qualche modo coincidono.
In definitiva, sono numerosi per quantità e qualità gli interventi sulla materia filmata che coincidono tra i due cineasti o necessitano di maggiore approfondimento e focalizzazione: Wiseman, come Philibert, applica forme del diretto alla realtà presa in esame. Troupe ridotta all’osso, pochissima o nessuna preparazione antecedente al film, disponibilità a seguire l’imprevisto, anzi costruzione in fieri di tutto un approccio che favorisca e agevoli tale proposito di disponibilità, nessuna voice over o commento fuori campo che illustri, introduca, spieghi al posto di – in vece delle immagini e dei suoni in diretta – ciò che si mostra sullo schermo. E’ lo stesso Philibert, d’altra parte, a citare l’autore americano come fautore di una prassi filmica alla quale ha sempre guardato con attenzione e rispetto, certo non soggezione, ma coscienza dei debiti formali e in qualche maniera di spostamento della frontiera, di azione pionieristica che Wiseman (certo non l’unico, ma di sicuro il più costante), ha intrapreso da Titicut Follies (anno 1967) in poi.
La definizione cinema a misura d’uomo vale sia per Wiseman sia per Philibert, insomma, anche se a ben guardare l’occhio di Wiseman tradisce una lucidità differente, un’imperturbabilità – forse sarebbe meglio dire una freddezza dello sguardo – che Philibert non ricerca, che spesso anzi, tenta di escludere dal cammino della propria osservazione, mettendo in evidenza aspetti umani più conviviali e leggeri, creando una sorta di magnetismo dello sguardo attraverso la gioia, l’empatia e il piacere piuttosto che non l’indifferenza, lo sconcerto o l’angoscia delle pellicole di Wiseman.
Frederick Wiseman, infatti, nell’arco di tutta la sua produzione (più di trenta film nell’arco di quaranta anni) ha composto un mosaico inquietante della società americana, costruendo, di film in film – tessera dopo tessera – ritratti di varie e particolari istituzioni, mostrandone il funzionamento, le contraddizioni e, in alcuni casi, le aberrazioni e la perdita di umanità e senso che queste istituzioni in alcuni casi dimostrano verso le vite umane che dovrebbero sostenere e sorreggere: una specie di anatomia del disturbante delineata all’interno del ventre sociale e istituzionale americano (e, per contiguità, di tutto l’occidente). I film di Wiseman, d’altra parte, sono certamente notevoli presi singolarmente, ma acquistano un sovrappiù di valore quando vengono considerati nel loro complesso, nella loro capacità di formare un orizzonte – quello dello Stato e della società americana, delle proprie ambizioni e involuzioni non percepite. La presunta neutralità dell’istituzione spesso maschera una bestialità e un esercizio di dominio che Wiseman riprende senza pudore ma al tempo stesso senza evidente indignazione: seppur nella loro freddezza, i film di Wiseman non vanno considerati trattati di sociologia, perché il cineasta americano tende verso l’espressione piuttosto che all’analisi scientifica.

«[…] Lo sforzo consiste nel trovare un atteggiamento il più delicato possibile: non voglio imporre il mio punto di vista o la mia ideologia, perché so che se arrivo in un luogo con un’idea preconcetta è certo che perderò molte cose, o che le semplificherò in maniera pericolosa. […] i miei lavori compongono un unico lungo film sull’America. Ogni soggetto è pensato come capitolo di un lavoro di ricerca sulle istituzioni americane. Trattare le istituzioni ha come conseguenza diretta il presentare differenti meccanismi di funzionamento della società».

Il cinema di Philibert, come si evince dai brani appena riportati, ha moltissimi punti di contatto con quello di Wiseman. Una delle differenze più marcate si trova però – al di là della ricerca sul potere di parola e le sue articolazioni che anima il cinema di Wiseman – nel disinteresse di Philibert verso la creazione di quel corpus organico che nasce dalla somma dei soggetti, a cui Wiseman giunge, attraverso la molteplicità dei propri testi filmici.

3. Provando ad entrare nella configurazione della scrittura di Philibert si nota come, soprattutto in alcuni titoli come La Moindre des Choses e Un Animal, des Animaux, il cineasta utilizzi determinate forme linguistiche, i piani fissi, spesso privi di esseri umani, come sorta di punteggiatura tra le sue sequenze. Si pensa in questa sede alle inquadrature delle fronde degli alberi e al campo totale del castello di La Borde in La Moindre des Choses e le inquadrature della galleria zoologica, soprattutto quelle in esterni, di Un Animal, des Animaux, che andrebbero interpretati in vario modo: intermezzi, code o pause nella narrazione. Ci pare interessante sviluppare meglio questo concetto, anche alla luce delle riletture critiche che Richie, Schrader e Deleuze fanno – seppure in ambito profondamente diverso – di frammenti simili, composti principalmente da inquadrature fisse e immobili di panorami o composizioni di nature morte in Ozu; per il cineasta giapponese questi appartengono al senso del mu, il vuoto, inteso nell’accezione della cultura Zen.

«[…] Lo Zen costituisce la quintessenza dell’arte tradizionale giapponese, quell’arte che Ozu ha cercato di trasporre nel cinema. […] Forse il principio fondamentale dell’arte Zen è il primo koan dello Zen, il mu, il concetto di negazione, svuotamento e privazione. Il vuoto, il silenzio e l’immobilità sono elementi positivi nell’arte Zen e rappresentano la presenza piuttosto che l’assenza di qualcosa. […] Tuttavia il mu è espresso soprattutto nelle “code”, ossia negli inframmezzi che ritmano i film di Ozu. I suoi film sono strutturati secondo un’alternanza di azione e vuoto, interni ed esterni, scene e code. Ogni coda segna un nuovo “paragrafo” in Ozu, sempre per citare Richie. Non ci sono capitoli, solo paragrafi e code. […] Secondo una prospettiva artistica occidentale si potrebbe sostenere che le code vengono logicamente inserite per dare peso ai paragrafi, ma per Ozu, così come per lo Zen, avviene esattamente l’opposto: il parlato dà significato al silenzio, l’azione alle scene di paesaggio. Ozu è permeato dal mu, che è anche l’unico carattere inciso sulla sua tomba a Engaku-ji».

Deleuze mette in evidenza il fatto che Schrader non abbia ben suddiviso questi vari sintagmi, perché creando un unico insieme, ha conseguentemente travisato la loro funzione sintattica dentro alla struttura dei film del regista nipponico. Il filosofo francese contesta al futuro sceneggiatore e regista di Hollywood di non aver ben marcato la profonda differenza tra vuoti e pieni in queste inquadrature fisse: mentre certe inquadrature si rifanno allo “stile one-corner”, quindi ci comunicano il senso del mu, del vuoto, altre sono a loro complementari, perché le nature morte non possono essere intese nient’altro che come composizioni, e quindi, di fatto, rappresentazioni del pieno, dell’organizzato, del composto. Deleuze chiarisce in dettaglio questa differenza, specificando il carattere profondamente complementare di queste due istanze nel cinema di Ozu. Ma mentre le inquadrature lunghe che ritraggono il mu hanno come obiettivo quello di costituire «situazioni puramente ottiche», i campi fissi delle nature morte hanno un’altra finalità, quella di ritrarre il fluire del tempo.

«La natura morta è il tempo, perché tutto ciò che cambia è nel tempo, ma il tempo stesso non cambia, non potrebbe cambiare che in un altro tempo, all’infinito. Nel momento in cui l’immagine cinematografica si confronta nel modo più ravvicinato con la fotografia, se ne distingue anche nel modo più radicale».

Quale che sia effettivamente la reale funzione di queste inquadrature in Ozu non è centrale in questa sede, e risulta perciò inutile imbastire una discussione critica al proposito. Resta il fatto che anche Philibert, in alcuni suoi film, con sicuramente minor assiduità di Ozu, ricorre a simili funzioni grammaticali applicate alle immagini, e tutto ciò è molto importante in questo contesto. L’analisi dei film di Philibert, a livello di composizione del quadro è di difficile sistematizzazione, dato che viene realizzata nel campo del cinema del reale e della vita colta sul fatto; pare logicamente impossibile pre-organizzare un decoupage delle varie scene di un film di Philibert attraverso un piano dei quadri prestabiliti, o ancor peggio uno storyboard; è un metodo confacente ad un’idea di cinema che si costruisce a tavolino nelle varie unità paradigmatiche, e quindi sintagmatiche. Si può scegliere ad esempio se restare lontani dal soggetto filmato o cercare una prossimità: opzioni queste che producono di conseguenza forme differenti. Tutto questo succede, soprattutto, quando Philibert si trova in compagnia di altri esseri umani, quando i suoi film presumono un contatto e una relazione: il grado di costruzione e messa in forma in questi casi si riduce al minimo, ampliando al massimo il livello di imprevedibilità. Resta il fatto, però, che determinate inquadrature, certe interruzioni dell’azione, siano scelte deliberate, giustapposte alle scene dove la narrazione del reale porta avanti le istanze che Philibert condivide con coloro che partecipano alla creazione del film, che ne sono in qualche modo, i co-autori, coloro i quali «realizzano con» il cineasta francese i suoi film. Queste inquadrature degli ambienti, in pratica, risultano il vero e proprio sguardo di Philibert, libero dall’impegno non scritto dell’attenzione verso i soggetti ripresi, e finiscono per essere uno spazio espressivo sotto la totale responsabilità del regista. Come leggere queste inquadrature? Analogamente alla lettura dello stile di Ozu, in queste unità lessicali si potrebbe vedere sì una pausa, ma non nel senso di interruzione della diegesi del film, quanto piuttosto una coda ai vari paragrafi, alle sequenze del film, durante le quali lo spettatore ricolloca i vari significati sottesi nelle scene precedenti con l’unità generale del film, a partire, ad esempio, della localizzazione geografica e meramente fisica nella quale si svolge la narrazione. Sempre strettamente collegate alla sintassi filmica di Ozu queste inquadrature richiamano l’idea del passare del tempo, del fluire temporale inteso come vero e proprio protagonista di questi frammenti, capaci in qualche modo di regolare il flusso della pellicola, indipendente dall’azione umana narrata, e quindi sottoponendolo ad altre regole, ad altre necessità. Le inquadrature lunghe presenti nei film di Philibert, con il loro succedersi aperiodico, creano uno scarto nella visione, obbligano lo spettatore a rileggere in queste immagini ricorrenti i mutamenti che si verificano nel film, diventano il momento in cui più evidente si fa lo scontro tra natura e cultura, tra vita e linguaggio, tra ciò che è sottoposto al nostro potere di controllo e manipolazione e ciò che continuamente si sottrae, evita la necessità di un controcampo, di una azione conseguente. Se l’interpretazione di Schrader relativamente al peso narrativo delle code in Ozu sembra essere cucita addosso alla scrittura cinematografica di Philibert, altrettanto precisa risulta essere la visione di Deleuze sulle immagini-tempo effettuata sul medesimo cineasta giapponese: una serie di tributi e intrecci incrociati che legano in modo molto stretto lo stile di Philibert alla particolare scrittura del maestro della casa di produzione Shochiku. La Moindre des Choses è uno dei titoli dove questa scelta sintattica si trova con maggiore sistematicità e frequenza. Philibert la giustifica così, collegandola intimamente con il sentimento proprio del fluire temporale, la malinconia.

«Questo sentimento viene sicuramente dal tempo che passa, ma fors’anche dalla natura… Una delle prime cose che si notano in La Borde è la forte presenza degli alberi. Se i degenti sono sfuggiti alla società, non di meno hanno comunque un rapporto con il mondo, con la presenza, con lo spazio… Io volevo che il film traducesse questo spazio-tempo differente. Da qui questi lunghi piani sugli alberi agitati dal vento. Da qui allo stesso modo la scena del temporale. E’ bello, un temporale, ma questo smuove più in profondità. E il tuono che si allontana, è un istante di pura malinconia, come una cosa che non cessa di morire. E’ forse la stessa malinconia propria del teatro, con l’euforia legata alla preparazione di uno spettacolo, e il suo placarsi dopo la rappresentazione».

L’istanza presupposta in queste inquadrature accompagna strettamente anche l’idea del tempo, che Bergson ha rilevato come fatto centrale dell’esistenza. E’ lo stesso filosofo francese che evidenzia lo scorrere, il fluire del mondo, come un fattore determinato molto più dalla percezione individuale e dal filtro della memoria che da scansioni temporali fisse, immutabili e valide universalmente; la metafora che utilizza per distinguere il tempo scientificamente misurato da quello realmente percepito risulta nel nostro contesto in qualche modo paradossale, perché contrappone la spirale del tempo – associata alla percezione individuale – a quel che concerne la visione scientifica del tempo (il celebre paragone con la pellicola cinematografica) dove il fluire temporale, appunto, scorre, ma come insieme di infinitesimali porzioni di tempo, scanditi e ridotti a innumerevoli istanti di immobilità.
Più profondamente, Philibert individua in queste code composte da inquadrature fisse – fotografie in movimento – vere e proprie funzioni narrative, necessarie a ri-collocare e ad indirizzare la narrazione che viene costruita anche attraverso la chiamata in causa di elementi non antropomorfi, ma tutt’altro che inanimati. C’è un respiro nella natura dei film del cineasta francese che inevitabilmente guida la visione e influenza il tema del film, declinando il carattere delle sue pellicole. La natura, l’ambiente è in qualche modo il personaggio al tempo stesso presente e assente che accompagna i presunti protagonisti delle sue storie. Philibert stesso – alludendo a Etre et Avoir – comunica il proprio interesse non marginale per queste code così strettamente legate all’immagine-tempo.

«Le stagioni, il tempo che passa… era per me essenziale. Sovente, dopo la lezione, si partiva per i sentieri, si andava a filmare il paesaggio. Volevo filmare la natura dentro la sua bellezza e anche per quello che può avere di inquietante. D’altra parte, se il film ha qualcosa di una fiaba, è dovuto a queste inquadrature: a certi alberi un po’ fantomatici che si agitano al vento, al silenzio che pesa sui grandi spazi, a una certa solitudine, questi campi d’orzo dove si cerca Alizè…»

I film di Philibert, di conseguenza, possono essere anche intesi come sinfonie, opere musicali di ampio respiro. Sempre tenendo a mente la logica linguistica dei film di Ozu, appare necessario comprendere come non si renda mai necessario suddividere i film di Philibert nelle unità narrative classiche: la narrazione del cineasta francese è spesso orizzontale, il climax che si insegue non si rivela mai per quello ci si aspetta, c’è sempre la necessità di vedere oltre, di creare onde sinusoidali diegetiche che ribaltano l’idea classica di narrazione occidentale, tesa vettorialmente verso una catarsi, una risoluzione della tensione. Nel lessico musicale brano, episodio e frase danno la cifra di un progetto composto da vari momenti, da una sorta di composizione che crea un tutto, una unità complessiva che necessita di ogni parte, ugualmente importante, per avere la propria struttura stabile e leggibile. I film di Philibert sono pieni di esempi che ci collegano alla logica musicale, a un progetto narrativo il quale risulti composto da varie tessere, dove il ritmo cambia attraverso un mutato registro della regia, dove in pratica l’occhio del cineasta conduce e cambia tono, con leggerezza ma sensibilmente, per dare risalto ai vari aspetti che costituiscono le proprie opere. La presenza di questo scarto, di questa mutevolezza nell’approccio in ogni film (e all’interno di ciascun film nelle varie sequenze che li costituiscono), fa sì che lo stile del cineasta divenga spesso quello del compositore, perché in maniera formidabile la forma riesce ad adattarsi al contenuto, avvolgendo la materia filmata, con un linguaggio multiforme e una flessibilità nello sguardo che permettono al cinema di rivelarsi, alleggerendo la visione e le proprie creazioni dal compito didattico – o peggio ancora didascalico – in ragione di cui gli elementi che caratterizzano le storie dei suoi film non risulterebbero altrettanto importanti, altrettanto visibili: ecco che si comprende meglio perché Philibert afferma che il cinema è tale solo quando «un film supera i limiti imposti dal soggetto».


di Redazione
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