Spielberg-Williams, una coppia cinemusicale indissolubile
L'ultraquarantennale collaborazione tra Steven Spielberg e John Williams si riafferma come il più longevo e duraturo sodalizio fra un compositore e un regista.
Giunta al capitolo 28 con The Post, l’ultraquarantennale collaborazione tra Steven Spielberg e John Williams si riafferma come il più longevo e duraturo sodalizio fra un compositore e un regista: iniziato nel 1974 con Sugarland Express, esso è proseguito sino ai giorni nostri con solo tre interruzioni. La prima nel 1985 per Il colore viola, dove la scelta di campo “all-black” del film suggerì a Spielberg di rivolgersi al grande jazzman Quincy Jones; la seconda nel 2015 per Il ponte delle spie, cui Williams non poté attendere perché contemporaneamente impegnato con l’”Episode VII” della saga Star Wars e il cui incarico passò a Thomas Newman; la terza per l’imminente Ready player one, dal romanzo di fantascienza di Ernest Cline, di cui Williams non ha potuto occuparsi perché di nuovo al lavoro sia appunto con The Post sia con l’”Episodio VIII” del ciclo Star Wars, e che segnerà perciò il primo “incontro ravvicinato” tra Spielberg e Alan Silvestri, peraltro questi musicista di fiducia da decenni di Robert Zemeckis, il cui cinema mosse i primi passi proprio da una costola spielberghiana.
Sono interruzioni che naturalmente non hanno impedito a questo lunghissimo matrimonio artistico di assumere una configurazione, uno stile, una inconfondibilità che pur nella varietà di generi esplorati dal cinema di Spielberg hanno mantenuto tratti unitari e coesi, contribuendo in maniera decisiva a fare di Williams una delle personalità di più alto profilo nel panorama, peraltro affollatissimo, della musica per film contemporanea.
Storicamente, quando si parla di tandem regista-compositore, la memoria collettiva corre ad esempi consolidati e arcinoti, anche se limitati ad un numero molto inferiore di titoli, come Prokof’ev-Ėjzenštejn, Rota-Fellini, Herrmann-Hitchcock, Morricone-Leone: ossia casi in cui il linguaggio personale dei compositori si è plasmato sull’universo dei registi sino a divenirne insieme parte costitutiva e spiccato elemento di riconoscibilità, pur mantenendo intatte – anzi acuendole – le proprie specificità stilistiche.
Ma numerosissime altre collaborazioni “stabili” o comunque di lungo periodo si sono rivelate almeno altrettanto significative e decisive, per la formazione della poetica sia dei musicisti sia dei registi, e ciò è avvenuto un po’ dappertutto. Erik Nordgren, ad esempio, grande compositore svedese del ‘900, ha forgiato di sonorità insieme colte e moderne tutta la prima parte della carriera di Ingmar Bergman, da Sete del ’49 a A proposito di tutte queste… signore del ’64; così come Fumio Hayasaka, esponente della corrente più avanzata della musica contemporanea giapponese, è stato prezioso evocatore di suggestioni nei film di Kenji Mizoguchi e Akira Kurosawa, mentre il russo Eduard Artemyev, pioniere della musica elettronica in un paese dove la modernità ha sempre faticato a farsi strada, ha rivestito di sonorità stupefatte i grandi silenzi del cinema di Andrej Tarkovskij; e, a Hollywood, Ernest Gold ha trovato tonalità epiche e all’occorrenza aggressive per il cinema “radical” di Stanley Kramer.
Non meno importanti gli intricati, urticanti e “sgradevoli” viluppi atonali che Mathieu Chabrol ha creato per il cinema beffardo e antiborghese del padre Claude, o i sontuosi arredi neoclassici e citazionistici di Richard Robbins per le evoluzioni letterarie di James Ivory. Anche in piena “politique des auteurs”, il ruolo di alcuni musicisti si è rivelato decisivo come nei casi di Michel Legrand per il primo Godard e di Georges Delerue, ancora per Godard ma soprattutto per François Truffaut.
Si accennava sopra al tandem ininterrotto fra Alan Silvestri e Robert Zemeckis, sedici titoli dall’84 (All’inseguimento della pietra verde) sino ad Allied (2016), in un rutilare continuo di idee indimenticabili, ma varrà la pena anche di segnalare quello tra i canadesi Howard Shore e David Cronenberg, 17 titoli in un quarto di secolo da Brood a Maps to the stars in cui il compositore de Il Signore degli Anelli ha creato un universo sonoro parallelo di insondabile e perturbante tragicità; nonché quello, meno costante ma entusiasmante, che da oltre trent’anni lega Danny Elfman e le sue fantasmagorie musicali all’universo “dark” di Tim Burton.
Vi sono poi casi nei quali il connubio musicista-regista ha finito col diventare un vero e proprio genere, come il “Pino Donaggio-Brian De Palma movie” che, sia pure con lunghissime interruzioni, da Carrie del ’76 sino all’imminente Domino ha rappresentato in soli otto titoli un inconfondibile unicum nell’àmbito thriller-horror.
Peraltro nella stessa Italia non tutto si esaurisce tra Rota e Fellini (ma anche Visconti), o Morricone e Leone (ma anche Tornatore, Faenza, Bolognini e tanti altri). Pensiamo ad esempio a come il grande Riz Ortolani ha affettuosamente e lucidamente accompagnato le intermittenze sentimentali del cinema di Pupi Avati, o a come Piero Piccioni si è equamente spartito fra le brusche, combattive e moderne partiture per Francesco Rosi e la sofisticata leggerezza di quelle per Alberto Sordi; o alle deliziose, svagate tessiture jazz-liriche che Armando Trovajoli ha escogitato per la commedia “all’italiana” di Ettore Scola e Dino Risi; o infine a come, oggi, Pasquale Catalano, sia il più fedele interprete musicale della complessità e dei tormenti interiori di Ferzan Ozpetek.
Tutte riprove di intese profonde, personali prima ancora che artistiche, che hanno arricchito anche la storia cinemusicale di un’infinita e feconda varietà di stili.
di Roberto Pugliese