Solaris: un libro, due film
Un libro, due film. Stanislaw Lem, scrittore polacco di fantascienza morale, pubblicò Solaris nel 1961. Il libro interessò molto i cultori del genere, i critici e i filosofi. Vi si racconta di un misterioso pianeta Solaris – Oceano che si comporta come un essere vivente ed è in grado di catalizzare i ricordi di quanti lo avvicinano restituendoli come persone reali in tutto e per tutto. E’ quanto capita anche allo psicologo Chris Kelvin inviato lassù per capire perché i membri superstiti di una precedente missione stanno fornendo risposte vaneggianti alla base terrestre. Lui stesso, giunto sulla base spaziale, cade preda del pianeta vivente e rivive la storia d’amore con la moglie, suicidatasi dieci anni prima dopo un duro litigio.
Siamo dalle parti di quella fantascienza morale che tanto appassiona studiosi e filosofi. Un tema complesso e sviluppato con una tale ricchezza da consentire molte letture. Vi fu chi lo lesse come una prefigurazione di uno stato totalitario, capace di controllare persino le menti. E’ un universo supertecnologico e oppressivo che si muove sulla scia di quello descritto da Aldous Huxley ne Un mondo nuovo. Altri, invece, vi colsero una storia psicologica, un incubo mentale in cui il ricordo diventa una cicatrice indelebile.
Andrej Tarkovskij si è rivolto prevalentemente al primo filone quando, nel 1972, ha portato sullo schermo il libro per la prima volta. La sua è una lettura politica a cui aggiunse una notevole dose di misticismo. Il progetto è reso evidente dall’aggiunta di una lunga introduzione, ambientata sulla terra, e da un finale in cui il panorama terrestre si sposta sul pianeta. Queste sequenze furono incautamente sforbiciate da Dacia Maraini quando curò l’edizione italiana del film.
Steven Soderbergh, invece, prende in mano il libro per trarne un testo nettamente psicologico con l’idea di dimostrare come l’uomo non può mai liberarsi del proprio passato, soprattutto quando ad esso lo riallacciano pesanti sensi di colpa. Le responsabilità non si cancellano anche a distanza di anni, al punto che ciascuno di noi è costretto a rivivere all’infinito ciò che ha e non vorrebbe aver fatto. Tanto il regista russo appare intriso di morale cattolica, altrettanto l’americano è debitore alla cultura protestante. Per lui la trasposizione del romanzo è l’occasione per una riflessione più psicologica che morale. La sua è una scelta intimista e autoriflessiva.
Il punto debole del film si ricollega all’utilizzo di un attore incapace di una recitazione sfumata. George Clooneymanca clamorosamente il bersaglio e appare più preoccupato di esibire le sue grazie che non di dare corpo ai triboli del personaggio, assecondando la vena pessimista che attraversa il film. E’ un’opera chiusa in se stessa, anche dal punto di vista stilistico, con una dominanza assoluta delle sequenze all’interno dell’astronave. Persino le poche scene terrestri appaiono soffocanti, bloccate in una lunga serie di primi piani.
di Umberto Rossi