SIC2015 – Light Years
Vedendo Light Years, opera prima di Esther May Campbell, qualche giorno dopo Montanha di Salaviza, si giunge alla conclusione che non poteva esserci film di apertura migliore, per la Sic di quest’anno, di Orphans di Peter Mullan. Anche in questo caso, ci troviamo in presenza dello stesso tema: l’accettazione dell’assenza e l’elaborazione del lutto.
Se, nel film portoghese, a fare i conti con la malattia e la morte è l’adolescente David, qui c’è un’intera famiglia alle prese con il distacco dalla figura materna. Altra differenza fondamentale è che la pellicola di Salaviza è crudamente realistica mentre Esther May Campbell opta per quello che potremmo definire “realismo poetico”.
Attraverso una riuscita commistione di digitale, 16 mm, tempi, formati e stock diversi, la regista intende mostrare come una famiglia sia una costellazione, i cui membri sono sempre in collegamento, anche quando sembrano distanti anni luce. “Light years” può essere tradotto anche come anni “leggeri”, gli anni innocenti dell’infanzia di Rose e dell’adolescenza di Ewan e Ramona, protetti, in parte, dalla sofferenza da una sorta di incoscienza, tipica dell’età.
Ha dichiarato l’autrice: “Gli anni luce del titolo non sono quelli di Guerre Stellari. Volevo trasmettere, nello stesso tempo, malinconia e leggerezza. Volevo comprendere il significato della crudeltà e della gioia di una morte inevitabile”.
Il film nasce da un’immagine: una ragazza che viaggia in autobus per andare a far visita alla madre. Il resto si è sviluppato, pian piano, in un luogo che è come un limbo in cui si incontrano il mondo naturale e quello industriale moderno. Inanellando momenti che paiono casuali, irreali e magici, la regista invita lo spettatore ad accettare ciò che non si può risolvere e suggerisce che è proprio in questo percorso la risposta alle contraddizioni della vita. Il mondo naturale si infiltra continuamente nella storia, quasi a voler rammentare a chi guarda che c’è una grande forza vitale che connette il Tutto.
Un film dalle ambizioni spirituali, senz’altro personalissimo, ispirato: peccato che, per dar spazio alla cosmologia, si finisca per perdere la realtà del dolore che, per essere rappresentato, avrebbe avuto bisogno, forse, di immagini “sporche”, imperfette, meno “belle” ma vere.
di Mariella Cruciani