Saraband di Ingmar Bergman

Saraband Bergam

Saraband BergamTrent’anni dopo Scene da un matrimonio esiste solo Saraband. O meglio, Saraband sembra esistere prima ancora di tutto. Capolavoro, opera testamento o semplice cinema (e nel caso di Bergman semplice è un aggettivo poco consono), essenza, distillato. Presentato in anteprima nazionale durante la XVIII edizione del Festival del Cinema Ritrovato di Bologna, l’ultima opera di Ingmar Bergman, riporta sullo schermo i protagonisti di Scene da un matrimonio, Marianne e Johan, che passati tre decenni provano a confrontarsi/scontrarsi/ritrovarsi/amarsi/odiarsi di nuovo. Mediati questa volta attraverso altri due personaggi e i loro complessi problemi. Henrik (Borje Ahlstedt), figlio di Johan e Karin, sua figlia (una stupenda Julia Dufvenius). Tre generazioni a confronto. In ballo la libertà, il senso civico della vita, la pura spiritualità dell’essere, temi portanti del cinema bergmaniano, che rifluiscono in un’opera complessa, formata da dieci atti, un prologo ed un epilogo.

Saraband BergmanUna storia raccontata in prima persona da Marianne, che, davanti ad un tavolo di vecchie foto, osa parlare/guardare direttamente in macchina, con il preciso intento di portare lo spettatore oltre lo spazio cinematografico, dentro l’immenso dolore di questa tragedia familiare. Proprio perché tutto sembra muoversi a partire dalla generazione finale, quella rappresentata dalla giovane Karin, soffocata dall’amore morboso ed egoista del padre, che la vorrebbe sempre accanto a se, solista (entrambi sono dei musicisti) di una sarabanda di morte e possessione. Ma Karin non ci sta, il suo sogno è entrare all’interno di un gruppo, sentirsi accompagnata dalle note degli altri, sorretta, sospinta fino all’orizzonte della musicalità, nel turbinio dell’ebbrezza magica di una nota. Fra loro la prima generazione, Marianne e Johan, incapaci di capire la tragedia, attoniti nell’evidenza dei fatti. Padre che odia il figlio, figlio che ama la figlia, figlia che vorrebbe odiare il padre, ex moglie che vorrebbe riamare l’ex marito, capirne la nipote, assettare l’intero quadro.

Ritmato, con un senso drammaturgico raro nel cinema contemporaneo, Saraband è prima di tutto un fotogramma che assomiglia al Grido di Munch, spettrale nella sua struttura, capace di ferire fino in fondo, senza restituire, dignità ai personaggi, nonostante in fondo si possa intravedere un qualche passaggio verso la luce. E se Marianne fin dall’inizio non riesce a spiegare a se stessa e all’ex amato (così come a Henrik e Karin), il perché della sua presenza, ora, adesso, passato tutto questo tempo, alla fine (?) capiamo, o intuiamo, che quel racconto al passato, quei turbinosi flashback, altro non sono che l’impronta genetica di un male primigenio, che attanaglia in profondità l’animo umano. Quell’atavico, morboso senso di smarrimento, che porta queste tre generazioni (e ciò che c’era e ciò che ci sarà), verso una completa e totale distruzione dell’amore, e la costruzione di qualcosa che per ora è solo indefinibile. Bergman lo ha definito il suo ultimo lavoro, il risultato del suo immenso dolore.


di Redazione
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