Salvatore Piscicelli: «Cinema come progetto»
Il testo integrale dell’intervista a Salvatore Piscicelli sarà pubblicato sul n.24 di CineCritica
Cominciamo dal tuo ultimo film. In Quartetto l’elemento che balza più alla vista è la sperimentalità, la particolarità tecnica e stilistica con cui è stato girato. Puoi dire qualcosa su questo aspetto?
Il film nasce proprio per fare questa esperienza tecnica, un desiderio coltivato da tempo e condiviso con il direttore della fotografia, Saverio Guarna. L’idea era di sperimentare queste piccole videocamere Sony, formato Dvcam, praticamente simili a quelle amatoriali; o meglio, sono il vertice della linea amatoriale della Sony, essendo certamente le più maneggevoli e sofisticate. Noi abbiamo approfittato dell’ultimo modello, che era appena uscito, la PD150, e il cui costo si aggira intorno ai dieci milioni. Sono videocamere che si possono tenere agevolmente nella mano: da questo punto di vista non è più possibile dire «girare con la macchina a mano» o «girare con la macchina a spalla», ma si deve dire, letteralmente, «girare con la macchina nel palmo della mano». L’idea era di avere a disposizione uno strumento estremamente mobile per rompere il più possibile tutta la pesantezza e rigidità della macchina cinema tradizionale: quindi niente carrelli, niente dolly, niente luci. Sul set non avevamo nemmeno il cavalletto.
Quante macchine agivano sul set?
Normalmente due, e in scena ce n’era spesso anche una terza, quella usata da una delle protagoniste, Angelica, che gira il suo film nel corso della storia. E io ho spesso usato quelle riprese nel montaggio finale, solo un po’ differenziandole nella resa dell’immagine per sottolinearne la presenza. Per il resto ho usato sempre due macchine, in qualsiasi inquadratura, tranne nei pochi casi in cui c’era da fare un piano sequenza. Quindi tutte le scene sono state girate con due macchine tenute nelle mani degli operatori e tutte e due sempre in movimento, nel senso che una non era di supporto all’altra ma agiva parallelamente, secondo un proprio percorso. Abbiamo costruito ogni sequenza su una ipotesi di lavoro iniziale, lasciando però poi liberi gli attori di impostare la scena sulle loro esigenze. A questo punto, mentre loro provavano le battute e i movimenti, noi provavamo a nostra volta il percorso delle macchine impostando per ognuna un preciso progetto di ripresa rispetto alla scena. Questa libertà era poi esaltata anche dal fatto che, come sai, ho deciso per questo film di sposare quelle che sono le regole del Dogma. Ciò significa che sul set, come ho già detto, non c’erano né luci né carrelli, e il gioco della ripresa era davvero ridotto alla sua essenzialità: gli attori in scena e le due macchine che li riprendevano.
E per quanto riguarda la fase di stampa?
Prima di girare il film abbiamo fatto molti provini. Abbiamo provinato situazioni di ripresa più o meno simili a quelle che ci sarebbero state nel film, sia in interni che in esterni, sia di giorno che soprattutto di notte. Perché l’80 % del film è girato di notte. Fondamentalmente, ci sono due modi per effettuare il trasferimento dal supporto digitale alla pellicola: o si usa il vecchio sistema del vidigrafo, che però non garantisce una grande qualità, o si agisce tramite il computer, utilizzando praticamente le stesse macchine messe a punto per gli effetti speciali. In queste macchine il processo operativo si divide in tre fasi. Nella prima, si acquisisce l’immagine 35 mm in immagine digitale; nella seconda, l’immagine viene rielaborata in funzione degli effetti speciali voluti; nella terza, infine, che è poi quella utilizzata da noi, l’immagine digitale viene trasferita nuovamente su pellicola, e questo procedimento avviene fotogramma per fotogramma, ed è quindi molto lungo. Si tratta, in pratica, di reintegrare le linee mancanti procedendo per interpolazione. Nel nostro caso, noi partivamo da un’immagine digitale non di grande qualità: avevamo poco più di 700 linee. Il computer effettua delle interpolazioni e ricostruisce così le linee mancanti. Ripeto, è un procedimento piuttosto lungo: nel nostro caso, con tutti i rifacimenti e gli interventi resisi necessari, ha richiesto un mese e mezzo di lavoro. Questo tipo di trasferimento, però, alla fine dà ottimi risultati. Il problema è che il software che governa il processo deve essere ben calibrato, e i provini fatti prima delle riprese tendevano essenzialmente a questo: trovare la giusta calibratura del software ma anche capire come doveva essere la qualità dell’immagine digitale di partenza, che viene messa a punto con quell’operazione che i tecnici chiamano «color correction». Ad esempio, all’inizio della fase della color correction, il primo rullo era troppo contrastato. Ci siamo resi conto che il processo di trasferimento in pellicola tendeva ad aumentare e ad esasperare i contrasti, e che dovevamo passare al computer un’immagine più morbida. Anche perché in seguito, nella fase di stampa, c’è tutta la possibilità di apportare le correzioni di contrasto necessarie.
E dal punto di vista dei costi, è un metodo conveniente?
Secondo me è un metodo ultracompetitivo, considerando anche il fatto che i costi di queste tecnologie si stanno progressivamente abbassando. Nel nostro caso, per un film che dura circa un’ora e mezza, il costo del trasferimento da digitale a pellicola è di circa 50/60 milioni. Considera, inoltre, che io alla fine delle riprese avevo quasi 60 ore di girato. Tradotto in pellicola questo significa 100mila metri di materiale: un lusso che non mi sono mai potuto permettere. Per Il corpo dell’anima ho utilizzato 35mila metri di pellicola.
Da un punto di vista più estetico cosa ha significato questa scelta? E alla fine che bilancio fai?
Erano soprattutto due i terreni che mi interessava esplorare. Il primo, già ne ho parlato, era dare una grande libertà agli attori sul set, liberarli dalla gabbia della macchina cinematografica, sottrarli alla condanna del campo, delle luci, delle bandiere, degli stativi, dei binari messi in terra, della posizione da assumere all’interno dell’inquadratura; il secondo, era l’idea di liberare al massimo l’occhio della macchina da presa, consentendogli una libertà di movimento praticamente assoluta. Intendiamoci, questa libertà non era una ricerca fine a se stessa, ma la possibilità di avvolgere gli attori, la situazione drammaturgica, in una specie di danza, cercando di fornire allo spettatore un effetto di maggiore vicinanza, quasi la sensazione di entrare dentro la situazione, di stare più a ridosso al gioco della recitazione. D’altra parte, la mobilità della macchina da presa è un problema che mi ossessiona da parecchio, e già nel film precedente, Il corpo dell’anima, la macchina si muove moltissimo. In quel caso, però, il movimento avveniva secondo una configurazione geometrica, quella della curva barocca, del festone, la macchina compiva quasi sempre dei movimenti circolari; in Quartetto, invece, volevo vedere se l’uso di macchine così leggere mi consentiva di spingere il gioco ancora più oltre. Alla resa dei conti sono molto contento del risultato raggiunto; mi pare che la mobilità della macchina da presa crei costantemente la possibilità di punti di vista diversi, di angolazioni nuove. Mi spiego meglio: nel cinema tradizionale si cura molto il taglio dell’angolazione dell’inquadratura, ma ci sono delle inquadrature di fatto impossibili, e soprattutto la pesantezza della macchina ti obbliga a una limitatezza di scelte. Viceversa, con il metodo di ripresa adottato per Quartetto, è come avere a disposizione una variazione totale dell’angolo di ripresa possibile, anzi la scelta dell’angolazione non rappresenta più un problema. Qualcuno ha detto che, in fondo, il cinema digitale rappresenta la morte della costruzione dell’inquadratura; al contrario, io penso che il digitale moltiplichi le possibilità dell’inquadratura, consentendo l’esplorazione di punti di vista assolutamente inediti. Naturalmente, di questa possibilità se ne può fare uso per certe cose, per altre non funziona.
L’avvicinamento a Dogma cosa ha significato per il tuo cinema? Nei tuoi film è sempre molto presente la rappresentazione di una realtà fisica, sociologicamente assai riconoscibile. Da un punto di vista stilistico, la scelta di Dogma provoca un raffreddamento, un distanziamento realistico, o sbaglio?
Il mio è anche un cinema di genere, e Quartetto, alla fine è un melodramma, con grandi spunti di commedia: ci tengo a questo. Per me Dogma, o anche l’utilizzazione di mezzi leggeri come le videocamere, non è in funzione di un preteso realismo, piuttosto rappresenta la possibilità di sperimentare una scrittura cinematografica diversa, più libera, pur sempre all’interno di un progetto filmico forte. Detto questo, mi sono preso con il mio ultimo film notevoli libertà in senso drammaturgico. Quartetto è un melò, è vero, costruito però con una certa discontinuità di fatti e storie. Avere quattro personaggi e quattro vicende che si intrecciano di continuo, mi ha dato la possibilità di costruire drammaturgicamente il film meno sulla continuità narrativa e più sul passaggio delle linee interne, dei prolungamenti e dei rovesciamenti da una situazione all’altra, diciamo sulle rime interne. Questo forse è un aspetto che può sconcertare, proprio a proposito dell’antinaturalismo. La presenza, poi, quasi fisica della macchina da presa, che interagisce con gli attori e li segue di continuo, influisce anche sulla loro recitazione.
In che senso?
L’attore recita lanciandosi nel vuoto. La macchina da presa non si trova in un posto preciso ma si muove di continuo, e quindi il punto di vista muta, non ci sono punti di riferimento. Bisogna abituarsi all’idea. Da una parte, l’attore non può più controllare la macchina, dall’altra questo fatto gli concede maggiore libertà. Io paragono questo modo di girare un po’ a una jam session, dove c’è una partitura di partenza, ci sono delle strutture musicali condivise, sulle quali però si elabora una costante improvvisazione. Inoltre, l’attore, vista la mancanza dei tempi morti, non ha nemmeno il tempo della pausa per riflettere e prepararsi alla successiva inquadratura. E’ costretto a un livello di tensione sempre molto alto. Un sistema faticoso ma anche interessante.
Quartetto è un film coerente con la tua filmografia o segna una discontinuità? Nel film mi pare che ci sia una rideclinazione di tutti i tuoi temi precedenti.
Sono d’accordo. Non c’è discontinuità. Il film è nato solo in maniera diversa rispetto agli altri, ma solo per caso. Dopo Il corpo dell’animaho frequentato per un certo periodo tre delle attrici poi presenti nel film. Da questa circostanza è nato, da un lato, il desiderio di lavorare insieme; dall’altro, una mia curiosità di raccontare delle storie di giovani donne e attrici, i rapporti che hanno con i loro genitori, le loro storie private, i loro problemi. L’idea ulteriore è stata di proporre questo spaccato generazionale raccontando anche la mia generazione, facendo quindi entrare in campo i padri e le madri delle protagoniste. Questa è stata la genesi del film e intorno al nucleo centrale si sono poi aggregati altri temi che fanno parte del mio cinema. Tra l’altro mi piaceva poter coinvolgere nei ruoli degli adulti attori che avevano partecipato ai miei film precedenti, fino ad arrivare all’impiego di Raffaella Ponzo e Roberto Herlizka, protagonisti de Il corpo dell’anima, dove tale rimando è addirittura esplicito.
Il tuo è stato definito in passato un cinema di corpi; ma è un cinema molto attento anche ai territori. Sono questi i due temi più costanti nei tuoi film. Che sviluppo hanno avuto da Immacolata e Concetta in poi?
Tu lo sai, io vengo da una generazione che ha sempre vissuto il cinema come qualcosa che ha a che fare con l’estetica, con l’arte, ma anche con le ragioni di vita più profonde, quelle morali, politiche. Detto questo, però, io ho interpretato la mia idea di cinema secondo una chiave molto personale. Da Immacolata e Concetta, ma anche da prima, dai documentari che ho realizzato all’inizio della carriera, ho sempre pensato che l’atto di fare cinema dovesse essere accompagnato da nessuna certezza ideologica e da un desiderio di sporcarsi le mani, di entrare nelle cose senza paracadute e senza preconcetti. Fare un cinema che fosse gesto razionale, certamente, ma anche compromissione viscerale con la realtà. Ecco, questi due poli costituiscono la dialettica di base del mio modo di fare cinema; che in qualche modo corrisponde anche alla dialettica riferita ai miei interessi e gusti cinematografici. Anche qui c’è una polarità tra un cinema colto, sofisticato, sperimentale, e un cinema più popolare. E’ una polarità che non vorrei mai abbandonare e che rientra del resto anche nella mia storia personale. Io vengo da una condizione proletaria, da una famiglia contadina del Sud, e negli anni Cinquanta ho scoperto il cinema grazie a mia madre. Andavamo spesso al cinema e vedevamo di tutto, ma specialmente vedevamo il cinema più popolare, i film di Matarazzo, di Totò, il cinema americano. Il mio primo approccio al cinema è stato quello; poi ho riscoperto il cinema da cinéphile, all’epoca del liceo, dell’università, è stato lì che ho cominciato a fare il critico e ad amare e studiare il cinema più colto. C’è stato poi il lavoro alla Mostra del Cinema di Pesaro. Però non ho mai dimenticato quell’ancoraggio materno, originario, direi edipico, al cinema popolare. Anzi, in Immacolata e Concetta, ma questo è un ragionamento che faccio solo adesso, se c’è un limite è proprio nella ricerca un po’ esplicita di questa polarità tra cinema colto e cinema popolare. Adesso continuo a portare avanti quella ricerca ma lo faccio con maggiore leggerezza, maggiore abbandono.
Tu vieni dalla critica, quindi sei abituato a riflettere sul cinema in maniera teorica. Che giudizio dài della critica oggi? La riflessione che faccio è la seguente. La nostra generazione aveva davanti a sé una delle stagioni più straordinarie della storia cinema; erano gli anni Sessanta e Settanta, un periodo anche di forte rinnovamento e di apertura per il cinema. Ma quella stagione cinematografica, così importante, si accompagnava ed era strettamente intrecciata con un grande rinnovamento della critica. La generazione precedente era ancorata troppo al marxismo e all’ideologismo; è stata la critica di quegli anni ad aprire allo strutturalismo, alla semiologia, al formalismo, alla psicoanalisi. Abbiamo vissuto una stagione in cui lo sguardo sul cinema si arricchiva e si allargava in maniera straordinaria; di conseguenza il giudizio critico sui film avveniva all’interno di questo dibattito. C’era naturalmente dialettica, anche scontro, ma il giudizio non era né di gusto né frutto di un’analisi anonima. E soprattutto, il film era vissuto come un momento di riflessione culturale e politica. Oggi questo orizzonte non c’è più, l’università non produce dibattito, si studia, è vero, ma non vedo modelli culturali che si scontrano. Da un lato, quindi, c’è l’accademia, dall’altro il vuoto. Siamo tornati, più o meno, alla critica di gusto, solo qualche volta di buon livello.
di Piero Spila