Ricordo di Ugo Casiraghi
Mi piace ricordare, in modo amicale e spero spregiudicato, Ugo Casiraghi, scomparso il 7 gennaio 2006 a Gorizia, dove da qualche anno viveva, tra simpatiche baruffe, con l’amata compagna Licia e ben inserito in quella realtà di frontiera, pur se il suo cuore era rimasto a Milano, dove era nato il 25 febbraio 1921. Prima occorre però, specie per i più giovani, ripercorrere alcune tappe della sua lunga, feconda e animata vita, anche ambiziosa, pur essendo schivo da celebrazioni e riconoscimenti. Era fiero per esempio di essere cresciuto in una portineria e se ne faceva un vanto da vero intellettuale proletario, benché brillantemente laureato a costo di varie fatiche. Era anticonformista a modo suo, come quando negli anni ’60 girava in bicicletta nel nostro quartiere di Città Studi, vestito in modo casual con tanto di berrettino alla Mao, e se mi intercettava criticava amichevolmente la mia tenuta giovanile «borghese» con tanto di giacchettina e di pantaloni con la piega. Era molto legato, allora, al Partito, anche se questo lo aveva «processato» per essersi innamorato di Licia e averla sottratta al legittimo marito (la «morale» del Pci allora era elevata, nonostante le trasgressioni del compagno Togliatti o del compagno Terracini). Era soprattutto un uomo libero, benché qualche volta sul suo giornale non tutti i pezzi fossero graditi e una volta gli capitò che il direttore in persona tagliasse e integrasse un suo pezzo da Venezia. Era «critico» per scelta e per natura, una specie che si va estinguendo.
Cominciò giovanissimo su una testata regionale, Il Popolo di Lombardia (che poi sarebbe diventata tout court Il Fascio), alternandosi tra il 1940 e il 1941 con l’amico Glauco Viazzi, e i loro pezzi andrebbero ripubblicati: non che fossero particolarmente anticonformisti, sentivano bene o male l’aria del tempo, ma trasudavano tanto di quell’amore per il cinema da rappresentare ancor oggi un esempio. Poi arrivarono il richiamo alle armi, il fronte albanese, l’internamento in un Lager tedesco per militari italiani (dove tuttavia, non si sa come, continuò a leggere e a studiare, persino Duvivier!), infine il lungo ritorno in Italia prima a piedi e quindi con una bicicletta rubata a Bolzano. Qui trovò la sorpresa della pubblicazione del suo primo libro, Umanità di Stroheim e altri saggi (Il Poligono, 1945), che Viazzi aveva curato quasi a sua insaputa e che resta ancor oggi un testo prezioso (raccoglie saggi scritti per Cinema e per Bianco e Nero). Qui entrò quasi subito a l’Unità, edizione milanese, di cui fu critico cinematografico dal 1947 al 1977, forse un po’ troppo frettolosamente pensionato (gli subentreranno Sauro Borelli e in seguito Alberto Crespi). E’ in questa lunga stagione (accompagnata, come ricorda Carlo Lizzani, da iniziative di promozione del cinema italiano attraverso visioni a prezzo scontato in grandi cinema e poi nei primi cinema d’essai) che si svolse la sua principale militanza critica, imperdibile: era attento, metodico, preciso, appassionato nell’elogio (i maligni dicevano che se in un film c’era la figura positiva di un operaio il giudizio ne risentiva) e nella stroncatura (proprio per gli operai, tra i lettori del quotidiano, agiva a scopo propedeutico, didattico, ammonitore o scoraggiante). Chi lo leggeva ogni giorno, come il sottoscritto, trovava sempre qualcosa da imparare, anche nel possibile dissenso. Peccato che fosse restio, a differenza di tanti altri, magari meno degni, a raccogliere in volume le sue recensioni: nel 1978 rifiutò un contratto in bianco da me propostogli per conto della Longanesi in quanto, nonostante la stima per me, non voleva avere a che fare con un editore «borghese» (benché in quel breve periodo orientato a sinistra), anche se sorrise per il titolo credo suggeritomi da Tatti Sanguineti: Al cinema con il partito. Lui comunque avrebbe preferito Le Lune del cinema (titolo che involontariamente, anni dopo, gli ho sottratto per una mia rubrica su Cineforum, ma me l’ha perdonato), con allusione al simbolo grafico (luna piena, crescente, calante, nera) che sintetizzava il suo giudizio (altro che stellette, quadratini e asterischi).
Dopo l’Unità, tra anni ’80 e ’90, si dedicò a pregevoli studi storico-saggistici, ma dove li andò a pubblicare? Sull’introvabile rivista fiumana (era molto legato alla Croazia) Panorama. Andrebbero recuperati, se volessimo rendergli omaggio. Altrettanto difficili da rintracciare i suoi libri o corposi opuscoli: Il cinema cinese questo sconosciuto, Centrofilm, Torino, 1960; Il cinema cecoslovacco, Cinestudio, Monza, 1962; Il diabolico Buñuel, Imola, 1966; Cinema cubano, Ficc, 1967; Il giovane cinema ungherese, Porretta, 1970; Infanzia nel cinema, libro fotografico con Davide Turconi, Comune di Ferrara, 1980; Olimpia Olimpia con Claudio Bertieri, Rassegna di Palermo (International Sportfilmfestival), 1987; Filmario dello sport con Claudio Bertieri, 4 voll., Rassegna di Palermo (International Sportfilmfestival), 1988-1991; Cinema in edicola, 2 voll., l’Unità, 1997 (raccolta delle bellissime schede per una lunga serie di vhs); Cent’anni di cinema maledetto. Sperduti nel buio, libro fotografico sulla censura con Luciana Mulas, Silvana, 2000. Da anni lavorava, con assoluta meticolosità e profonde intuizioni, a Naziskino, una storia del cinema nazista contrapposto a quello yiddish e ad altri marginali. Un ricercatore inesausto sino all’ultimo, un perfezionista, un grande cuore non privo di simpatiche malizie. Era fatto così: un centrattacco che giocava da libero e non stava mai in panchina. Del resto, diceva Majakovskii, il cinema è un atleta.
di Lorenzo Pellizzari