Resnais, lo sperimentatore classico

Sabine Azéma e Alain Resnais

Il cineasta che più invidiavamo ai francesi, il più immaginativo, curioso, discreto, elegante, diciamo pure il più geniale della sua generazione, se ne è andato in punta di piedi a 91 anni così come era vissuto: nell’ombra, da perfetto outsider, cresciuto fuori dai gruppi (la Nouvelle Vague non riuscì né ad annetterselo, né ad eguagliarlo), libero quindi di offrirsi tutte le sperimentazioni possibili. Le ambizioni del ricercatore onnivoro, dello sperimentatore in continua evoluzione convivevano in lui con un rispetto assoluto per la tradizione classica: il surrealismo (ne era profondamente impregnato), la passione per la letteratura fantastica e popolare (fumetti compresi), il teatro, il music hall, la commedia musicale. Autodidatta confesso (per motivi di salute non poté seguire corsi regolari), rifiutò sempre il titolo di Autore: si accontentava di definirsi un artigiano in un’arte collettiva com’è il cinema.

La sua scelta di entrare nella professione dalla porta di servizio – come montatore – era tutto un programma. Il giovane Alain si farà la mano girando alcuni geniali documentari d’arte (Guernica, Anche le statue muoiono). Questa sua concezione “artigianale” contrastava in un contesto come quello dell’imperante Nouvelle Vague, in cui era di moda straparlare di “autorialità” (quante sciocchezze si sono dette in nome della tanto strombazzata “politique des Auteurs”! Paradossalmente, Alain lo si potrebbe definire una sorta di anti-Godard: mai posato a caposcuola, a rivoluzionario, mai sfruttato le mode del momento. Forse per questo i suoi film invecchiano meglio di molti di quelli della Vague.

Tra gli artigiani che componevano la sua équipe  un posto eminente attribuiva ovviamente all’autore del soggetto. Bisogna riconoscere che ha saputo scegliersi migliori scrittori della sua generazione: Jean Cayrol (Notte e nebbia, Muriel),  Marguerite Duras (Hiroshima mon amour), Alain Robbe-Grillet (L’anno scorso a Marienbad), Jacques Sternberg (Je t’aime je t’aime), Jorge Semprun (La guerra è finita, Stavisky), David Mercer (Providence), più tardi il commediografo inglese Alan Ayckbourn Di non passare per un Autore non gliene è mai importato, gli interessava solo che ogni suo film fosse totalmente originale, diverso dai precedenti.

Il segreto di Resnais? (Avendo avuto la fortuna sfacciata d’organizzare quarant’anni fa la sua prima retrospettiva completa, sono stato ammesso nel novero dei confidenti.) Per il regista bretone ci sono due modi fondamentali di far cinema. Il realista: mettere la cinepresa davanti alle cose, ai personaggi, e riprendere. E il surrealista: collocare la cinepresa “dentro” la coscienza dei personaggi, e come un “esploratore dell’immaginario” registrare quanto vi accade. «A me interessa la vita mentale, esplorare il mondo dell’inconscio, il cervello umano. I miei film sono un tentativo, ancor grossolano e primitivo, di avvicinarmi alla complessità del pensiero umano. Sono, diciamo, un realista della vita mentale. Se ci fate caso anche i ricordi li riviviamo al presente, che è poi l’unico tempo della coscienza. Nella mente umana, reale e immaginario, passato e futuro, si alternano senza soluzione di continuità; il pensiero cambia continuamente di ritmo, non c’è cronologia. Nei miei film io cerco di restituire questi cambiamenti di ritmo del pensiero. E cerco di creare una struttura drammatica completamente fondata sulle emozioni; i miei film non sono affatto cerebrali, sono interamente basati sull’istinto.»

Resnais è stato forse il primo cineasta che abbia tentato con successo di ricomporre i diversi  frammenti di coscienza della vita mentale dei personaggi; a esplorare i meccanismi,  i  miti che condizionano il comportamento dell’animale uomo. Con un montaggio estremamente frammentato, “a pulsazioni”, fatto di rapidissimi flashes, riesce  a coinvolgerci visivamente ed emotivamente in queste sue appassionanti promenades nei labirinti del cervello umano, a ricondurre all’unità di coscienza la frantumata realtà mentale.

Il suo ingresso nel cinema – Notte e nebbia (1955), insuperato documentario-capolavoro sui lager nazisti – fece subito enorme scalpore. Monicelli lo riteneva il più gran film francese dal dopoguerra. L’abile  montatore bretone si inventa qui un modo estremamente creativo di intrecciare commento e immagini di repertorio.

Altrettanto scalpore sollevò Hiroshima mon amour (1959), il capolavoro che la Nouvelle Vague attendeva ma a filmarlo fu un outsider. Giocando magistralmente sull’opposizione tra dramma individuale (l’Occupazione tedesca) e tragedia collettiva (Hiroshima), il regista  crea un poema visivo-sonoro di una novità siderante, di un’emozione sconvolgente. Piccolo particolare, il film precede di un anno la Nouvelle Vague.

Delphine Seyring, in L'anno scorso a Marienbad (L'année dernière à Marienbad - 1961), regia di Alain Resnais

Cambiando totalmente genere, con L’anno scorso a Marienbad (1961), storia musicalissima di una misteriosa seduzione, il regista ci offre il primo film totalmente onirico del cinema. Leone d’oro a Venezia, Marienbad diventa giustamente un caso, crea persino una moda! (Il regista, ammiratore di Antonioni, vi ha discretamente inserito un omaggio a Cronaca di un amore.)

Primo suo film ambientato al presente (1962), Muriel o il tempo di un ritorno è una straziante meditazione sul tempo che fugge inesorabilmente, tra delusioni amorose (il passato non ritorna) e ossessioni traumatiche (la tortura in Algeria). (I nostri ineffabili distributori fecero circolare questo sconvolgente capolavoro “in bianco e nero”, per risparmiare!) Miglior accoglienza viene riservata all’opera quattro, La guerra è finita (1965), eccellente esempio di cinema politico (i dubbi di un militante antifranchista).

Je t’aime je t’aime (Anatomia di un suicidio, 1968) è un primo  coraggioso, geniale tentativo di esplorare i labirinti del tempo e della memoria. I film di fantascienza della coscienza non incontrano i gusti del pubblico, e così l’autore si ritrova per cinque anni disoccupato. A farlo tornare dietro la cinepresa ci pensa Jean-Paul Belmondo nei panni di produttore : l’offerta di fargli dirigere un film sulla figura del discusso avventuriero russo Alexandre Stavisky incanta un grande esperto della Belle Époque come Resnais. Il successo di Stavisky il grande truffatore (1974, titolo italiano) apre una nuova fase creativa.

Tra il 1977 e il 2014 Resnais riconciliato con i produttori realizza una dozzina di film, in cui continua la sua indagine dell’immaginario, del subconscio, e prosegue nella tenace ricerca di nuove forme narrative. Con il tempo emergerà sempre più una sottile, felice vena comica alla Lubitsch.
Sontuoso omaggio alla cultura anglosassone di cui Resnais è un esperto, Providence (1977: gli inquietanti  deliri mentali notturni di un anziano scrittore malato che si sente al centro di un complotto di famiglia) è un’originale  metafora sulla creazione, la disgregazione dei sentimenti , la morte.

Ne L’amour à mort (1984), il regista si interroga sull’arduo  tema: i sentimenti possono durare oltre la morte? Fa scalpore l’idea di ritmare questo rigoroso, severo “quartetto”, un bell’esempio di cinema-musica, inserendovi frequenti intervalli di musica d’avanguardia, firmati Hans Werner Henze.

Cambiando totalmente genere, Mon oncle d’Amérique (1980) ci offre un vitalissimo saggio filosofico sul comportamento umano e sul funzionamento del cervello, argomenti capitali che da sempre appassionano il nostro autore; fa da amabile guida il biologo Henri Laborit in persona.

Con La vita è un romanzo (1983) Resnais e lo scrittore Jean Gruault (collaboratore di Truffaut) tentano con alterna fortuna le vie della favola; molto divertente la satira delle derisorie utopie di inizio Novecento  (“i templi della felicità”, “l’armonia universale”, “l’educazione dei sentimenti”).

Chi vuol vedere come una raffinatissima regia possa trasformare in cinema-musica una vecchia pièce di boulevard si guardi il delizioso  Mélò (1986)  della coppia Sabine Azéma (la nuova, geniale musa dell’autore) e André Dussollier. Resnais si è creato una famiglia di interpreti affezionatissimi.

Assecondando una follia teatrale dell’inglese Alan Ayckbourn, nel 1993 Alain si imbarca nell’ambiziosa impresa di filmare un ciclo di otto pièces concentriche del commediografo, che trattano del ruolo del caso nelle scelte umane. Il monumentale Smoking/ No smoking (otto pièces, due lunghi film speculari) è una brillante illustrazione del detto kierkegaardiano (Aut Aut):  “Passiamo il nostro tempo a chiederci cosa sarebbe accaduto se quella volta  avessimo scelto in quell’altro modo.” Pierre Arditi e Sabine Azéma interpretano magistralmente i nove ruoli.

Con On connaît la chanson (1997, Parole parole parole) Resnais si leva la soddisfazione di dirigere finalmente una commedia musicale; l’idea vincente del copione di Agnès Jaoui e Jean-Pierre Bacri (tema, le “salades amoureuses” di sei personaggi nella Parigi di oggi), è far cantare ai personaggi  brani di canzoni celebri che traducono i loro sentimenti profondi. Altrettanto felice si rivela la scelta di filmare la spiritosa operetta anni venti Pas sur la bouche! (Niente baci sulla bocca! 2003). Un capolavoro irresistibile, tutto da riscoprire.

Nell’ultimo decennio il regista ultraottantenne dirige ancora quattro film di tutto rispetto: Coeurs, Les herbes folles (Gli amori folli, un poema surrealista di prodigiosa genialità), Vous n’avez encore rien vu, liberamente tratto da Eurydice di Anouilh; chiude la serie  Aimer boire et chanter (ultimato un mese prima di morire, il film uscirà in questi giorni postumo). Sentendo giungere prossima la fine, Resnais decide di giocare uno scherzo alla sua troupe (lo spunto gli viene da  pièce minore di Anouilh). Nell’ouverture di Vous n’avez encore rien vu (2012) il regista della troupe teatrale fa convocare bruscamente i suoi attori e, a sorpresa, annuncia loro la propria morte; come favore chiede alla troupe  di recitare un’ultima volta la loro commedia preferita. Quando due anni fa abbiamo visto a Cannes  questa emozionante sequenza abbiamo sentito un brivido lungo la schiena: con quella burla, Alain ci diceva gioiosamente addio.

Presentato un mese e mezzo fa al festival di Berlino, Aimer  boire et chanter (le imprevedibili reazioni di tre amiche alla ferale  notizia che un loro amico avrebbe i giorni contati) ha ricevuto un curioso premio. “Per un cinema giovanilmente innovativo”, dice la formula sibillina.  A ben pensarci i giurati di Berlino non potevano scegliere meglio. Vincere il “Premio Jeunesse” a 91 anni sembra una trovata alla Lubitsch. Resnais ci teneva a lasciarci con il pié levato. Prima di spegnersi, aveva appena terminato un ultimo soggetto, pronto da girare: “Arriver, partir”… Questo titolo surrealista qualifica perfettamente Alain Resnais, l’eterno sperimentatore.


di Aldo Tassone
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