Regole infrante ed echi Buñueliani, in The others di Alejandro Amenabar

The Others

The OthersChe cosa spinge un regista spagnolo, sensibile alle sollecitazioni della modernità (sue le interessanti letture dello snuff movie in “Tesis”,1999 e dell’eutanasia in “Mare dentro”, 2005, come Alejandro Amenabar a intraprendere, anche per una sola opera, il sentiero dell’ovvietà di un genere cinematografico e letterario vetusto come la cosiddetta ghost story, se non il piacere di infrangerne le regole?
Certo non proprio semplicemente per ragioni commerciali. Non tragga per questo in inganno la presenza di una star di prima grandezza come Nicole Kidman nel ruolo della protagonista; la sua metamorfosi da persona fisica a presenza immateriale sancisce metaforicamente, la fine del divismo per via della propria fragile vacuità.
Il castello, vero prototipo di residenza nobiliare ottocentesca anglo-americana, viene progressivamente svuotato di qualsiasi valenza goticheggiante in quanto esso non è che la prigione dorata della signora, moglie e madre borghese di due figli, da cui non si dovrà mai uscire e in cui si perpetuano gli ossessivi riti quotidiani della chiusura delle porte (ve ne sono numerosissime), delle finestre (perché i bambini non sopportano la luce del sole in seguito ad una misteriosa malattia) e della recita delle preghiere. Riti a cui la donna non può affatto sottrarsi, apparentemente per istinto materno ma in realtà per dovere sociale. Amenabar ce la presenta come moglie, madre, e padrona di una proprietà immensa che segna la presenza di una solida tradizione socio-famigliare. La donna, bellissima e triste (è costantemente in attesa del marito disperso in guerra) tutto vorrebbe controllare, dominare, esercitando il suo fragile potere sui figli e sui servi.

Il suo è un caso di alienazione femminile, ma in senso diametralmente opposto dagli esempi forniti da un Kenneth Loach nel trittico Family life-Poor cow-Lady bird Lady bird, trattandosi piuttosto di un personaggio schiettamente borghese. Ma di certi personaggi Buñueliani, sia del periodo messicano che di quello francese, possiede la coazione a ripetere gesti e azioni minime, perlopiù alienati, attraverso cui definisce e rafforza la propria autorità e al tempo stesso l’impossibilità di liberarsene con un gesto risolutore. Prigioniera delle proprie ossessioni protettive e impositive e del proprio status sociale, la donna si convince che la casa è abitata da strane presenze, da intrusi (gli altri) o fantasmi burloni che si divertirebbero a disfare il suo operato, facendo scomparire le tende che proteggerebbero (a mo’ di vampiri, l’incolumità fisica dei figlioletti). Amenabar si diverte a giocare con i fantasmi irridendone il potenziale terrificante, introducendo il dubbio credibile che siano invero i vivi ad inventare i fantasmi a proprio piacimento. Ma si spinge oltre operando un rovesciamento dialettico mediante un colpo di scena narrativo che non esitiamo a definire geniale.
Certo, nelle mani di un Stanley Kubrick, il castello-residenza si sarebbe trasformato in uno spazio neutro, dinamico in cui tessere i fili di un labirinto visivo, come ci ha mostrato, ad esempio, in ”Shining”. Al regista spagnolo preme piuttosto “registrare” lo statu di saturazione dello spazio fisico, includendone gli stessi personaggi (padrona-figli-servi), al punto di rovesciarne appunto l’identità: essi non sono persone in carne ed ossa ma puramente dei fantasmi. In altre parole essi sono morti, giacchè la loro funzione in termine di messinscena, ossia il film stesso, è terminata. E’ dunque la morte del cinema come “scatola meravigliosa”, o di certa cattiva letteratura. Il film si pone al di qua della verità dei personaggi (madre assassina dei propri bambini e poi suicida), che viene visivamente negata, mostrando invece la parata ossessiva dei divieti, degli ordini impartiti ai servi, delle paure degli “altri”.
Benché morti e inconsapevoli di esserlo, mamma e bimbi continuano a recitare la medesima parte, la sola che conoscono proprio come morti viventi: non quelli granguignoleschi di un George Romero, ma gli altri, più simili ai vivi da sembrarlo essi stessi. Perfino quando scoprono di essere morti, creature immateriali che sembrano possedere del tutto le qualità dei vivi, non rinunciano all’antico privilegio di restare “per sempre” al castello.
Sono i vivi, invece, a doverlo lasciare, perché loro, the others, i fantasmi, non possono non suscitare una benevola pietà, mentre il pubblico protesta a gran voce perchè rimangano sulla scena.


di Maurizio Fantoni Minnella
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