Qualche cosa sul cinema e sui critici
Pubblichiamo l'editoriale di Piero Spila sul numero 86/87 di Cinecritica, la rivista di cultura cinematografica a cura del Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani.

Gli allarmi più insistenti dei nostri giorni arrivano dalla necessità di confrontarsi con il “diverso”. Un fenomeno che crea inquietudine, paura, disagio, prendendo di volta in volta la forma del pregiudizio o del rifiuto. Il diverso arriva dal Mediterraneo o dai Balcani, ma è anche quello che vive nelle periferie delle città, nei nostri quartieri, addirittura in certe famiglie. Nel cinema, a parte la cosiddetta neo-commedia alla quale è dedicato il Primo Piano di questo numero, è incoraggiante che alcuni dei film italiani più significativi dell’ultima stagione abbiano affrontato questo sentimento con sincerità e senza scorciatoie. La diversità può trovarsi in un carcere minorile (Fiore di Claudio Giovannesi), in un campo rom (Cuori puri di Roberto De Paolis), in un credo religioso vissuto come ossessione (La ragazza del mondo di Marco Danieli), nell’handicap fisico (Indivisibili di Edoardo De Angelis) ma anche in vicini di casa che sembrano felici e invece lottano con un cupo dolore (La tenerezza di Gianni Amelio). Quasi tutti questi film, tuttavia, terminano con una visione di ottimismo, dato dallo slancio di chi sceglie di reagire, abbattere le barriere (fisiche, psichiche, culturali), sempre però recuperando una dimensione possibile di solidarietà. Da soli non si fa nulla, insieme tutto diventa possibile, come dimostrano appunto i giovani protagonisti delle opere citate o il vecchio avvocato e la figlia di La tenerezza che nell’ultima inquadratura del film, dopo tanto disamore e lontananza, si siedono finalmente accanto, forse trovando una nuova ragione di vita. «La felicità non è una meta da raggiungere – dice una battuta del film – ma una casa dove tornare». Henri Langlois, il grande padre della Cinémathèque, diceva che i grandi autori sono quelli capaci di sfornare buonissimi croissants, poi ci sono altri cineasti (addirittura più preziosi) che si accontentano di fare del buon pane. Il cinema necessario. Alla fine è bello che un certo cinema italiano, anche se minoritario, anche nei limiti e nelle difficoltà che conosciamo, sappia stare al passo dei tempi complicati che viviamo.
Nei film scelti per la 32^ Settimana Internazionale della critica e anche nella SIC@SIC emergono alcune caratteristiche che meritano di essere sottolineate. Un buon numero di opere appartiene a un cinema non narrativo nel senso tradizionale del termine ma che lavora sulla frammentazione e la contaminazione espressiva, sulla non linearità del montaggio, sullo statuto sperimentale del suono e dell’immagine. E’ un dato significativo perché riguarda opere di registi esordienti ma soprattutto perché coincide con una tendenza ormai diffusa nel cinema internazionale, che tende ad andare oltre la dimensione del racconto lineare e che generalmente (e semplicisticamente) prende il nome di docufiction o, meglio, cinema del reale o “fuori norma”. E’ un passaggio decisivo che per la verità ha origini antiche e che per quanto riguarda il nostro paese ha anche un padre nobile: Roberto Rossellini. Fu lui, infatti, il primo (come spesso gli è capitato nella carriera) a dichiararsi ad un certo punto stanco di raccontare “storie e storielle” (parole sue) e ad accorgersi che il cinema era troppo grande per essere “sprecato” in una funzione banalmente narrativa e troppo piccolo per il grande impegno da affrontare (la storia dell’uomo, le scoperte della scienza, la società). Era un’indicazione di marcia seguita con alterne fortune e molte difficoltà, ma è incoraggiante che in Italia si è ormai consolidata una generazione di autori che lavora con buoni risultati sull’idea di un cinema a-narrativo e sulla sperimentazione: Gianfranco Rosi, Pietro Marcello, Leonardo Di Costanzo, Roberto Minervini, Costanza Quatriglio e tanti altri.
La cosa clamorosa è che tutto questo avviene mentre in un altro ambito dell’audiovisivo si verifica esattamente l’opposto: l’esaltazione della narrazione classica con i suoi tempi, il suo respiro, le pause e le deviazioni, le regole del climax e anticlimax rigorosamente rispettate. Parliamo ovviamente della serialità televisiva orizzontale e dello streaming che hanno apportato una vera rivoluzione nell’intera catena dell’audiovisivo, dalla produzione fino al consumo. Una serialità d’autore che trionfa in paesi lontani ma che dopo ritardi e passi falsi sembra trovare spazio e qualità anche in Italia, con autori come Stefano Sollima (Romanzo criminale – la serie, Gomorra, Suburra), Giuseppe Gagliardi (1992 e 1993) ma anche Paolo Sorrentino con il suo The Young Pope.
A guardare la cosa con un po’ di distanza è come se il sistema cinema stesse trovando una naturale spartizione di campo, da una parte il grande schermo con i blockbusters sempre più ipertrofici e ipertecnologizzati a convivere (e sarà dura) con il cinema di qualità, più innovativo, dall’altra lo streaming con i vari supporti di ricezione per le lunghe narrazioni che non sopportano orari e si adattano benissimo alla bulimia di un consumo vorace e individuale.
Un fenomeno in corso e in rapida evoluzione, a cui bisognerà abituarsi in fretta: gli esercenti come i direttori dei festival (fino a quando si discuterà sulla natura dei prodotti Netflix o HBO?), ma anche i critici cinematografici che finora hanno guardato alla serialità televisiva con un po’ di impaccio e incertezza (basta guardare l’assegnazione delle rubriche su certi quotidiani e periodici). Ma anche qui il tempo corre svelto e sempre più spesso capita di leggere sui siti specializzati e su riviste, ad esempio Film TV, recensioni e approfondimenti critici che ricordano la preparazione, l’entusiasmo e il fanatismo di certi cinéphiles anni Sessanta. Buon segno.
Di certo si tratta di due dimensioni di lavoro, due statuti estetici e operativi, volti però a coprire una reale esigenza del pubblico, e anche a rappresentare un aspetto centrale del nostro tempo.
L’11 agosto scorso a Locarno, Jean-Marie Straub ha ricevuto il Pardo d’onore alla carriera. Un riconoscimento prestigioso che giunge dopo le recenti rassegne internazionali al Moma di New York, al Museo Regina Sofia di Madrid, al Beaubourg di Parigi, a segnalare la vitalità e la potenza di un’idea di cinema che fortunatamente non viene meno. Danièle Huillet (scomparsa nel 2006) e Jean-Marie Straub possono essere considerati a tutti gli effetti “cineasti italiani”. Hanno vissuto nel nostro paese per più di trent’anni, metà dei loro film sono stati girati in Italia o parlano italiano (con le parole di Pavese, Vittorini, Fortini), eppure hanno sempre continuato a sentirsi esclusi, stranieri. Difficoltà produttive, impedimenti burocratici, ostracismi. Posso testimoniare il loro scandalo quando il film girato sulle pendici dell’Etna e dedicato al “siciliano più prestigioso di ogni tempo” (Empedocle) venne rifiutato al Festival di Taormina perché parlato in tedesco (i versi di Hölderlin). E le cose non devono essere cambiate, se nei giorni della notizia del premio è capitato ancora di leggere una solerte dileggiatrice del miglior cinema italiano (il dileggio è una categoria critica molto in auge in questi tempi) che si divertiva a irridere la scelta fatta dal direttore di Locarno, Carlo Chatrian, e un cinema definito una “fustigazione per lo spettatore”. Niente di nuovo sotto il sole se non la constatazione di una persistente, purtroppo non minoritaria, separatezza nei confronti di un cinema alto e fondante come quello di Straub e Huillet (un “abbecedario” per chiunque si metta dietro una cinepresa), che da critici e da spettatori è un onore poter considerare anche italiano.
di Piero Spila