Prima di tutto il cinema – Incontro con Marco Tullio Giordana

La meglio gioventù

La meglio gioventùPubblichiamo la parte iniziale di una lunga intervista che sarà pubblicata su CineCritica (versione cartacea) nel numero in uscita nel gennaio 2004

Iniziamo dal cinema civile. Grazie al tuo film, e ad altri usciti in questi mesi, sembra che il cinema italiano abbia ricongiunto una linea che si era spezzata. Si tratta sempre di definizioni un po’ generiche, tuttavia i tuoi ultimi film, I cento passi e La meglio gioventù, sembrano davvero rifarsi ad un’idea alta di cinema civile. Qual è il tuo parere?

Se è per questo, anche i miei primi film, Maledetti vi ameròLa caduta degli angeli ribelli, possono essere ricondotti all’interno di questa idea di cinema. Uno è uscito nel 1980, l’altro nel 1981, entrambi hanno cercato di raccontare, seppure con esiti diversi, la stessa cosa. Erano film sull’Italia: avevo trent’anni, cercavo di raccontare il paese che mi stava intorno, le cose che vi accadevano, confuse, convulse, conflittuali, che mi sembravano importanti, e delle quali, però, nel cinema che si faceva in quegli anni non c’era traccia.
Non parlo solo del cinema commerciale: anche gli autori ne sembravano intimiditi. C’era un grande vuoto dopo la generazione di Bertolucci, di Bellocchio, dei Taviani, di Olmi, di Pasolini… la generazione immediatamente succeduta a quella dei grandi maestri, Fellini, Rosi, Antonioni… tutti peraltro ancora attivi, a parte Germi morto nel ’74, De Sica nel ’75, Visconti nel ’76, Rossellini nel ’77 (e Pasolini, nel modo terribile che sappiamo, nel 1975).
Della terribile transizione dai ’70 agli ‘80, della strategia della tensione, del terrorismo, del riflusso, non c’era testimonianza nei film, a parte il cinema cosiddetto “militante”, in modo però molto approssimativo e propagandistico. Io debuttavo in quegli anni, quello era il mio contesto, mi dicevo: questa è la materia del mio presente e devo cercare di raccontarla. Non tanto per riallacciarmi alla tradizione del cinema cosiddetto “civile” (Rosi, Petri, Damiani, Montaldo…) che aveva così marcato il controcanto agli anni del boom, quanto perché mi sembrava di non poter prescindere dalla mia esperienza – diretta o indiretta. Non avevo opzioni da far valera, volevo solo raccontare… penso sempre che un cineasta con i suoi film debba mostrare le cose, non piegarli a una teoria… sarà poi lo spettatore a riconoscersi o rifiutare, analizzare, interpretare, esprimere un giudizio. Non ho mai creduto alla funzione “didattica” del cinema, diffido dell’ideologia che per me è sempre falsa coscienza.
Quella di “cinema civile” mi sembra una definizione riduttiva, anche perché considero i grandi registi che vengono generalmente riuniti sotto quell’etichetta, innanzitutto cineasti che hanno fatto buon cinema. Penso, ad esempio, che Salvatore Giuliano di Francesco Rosi sia molto più vicino a Citizen Kane che al giornalismo politico anche di alto profilo cui viene spesso apparentato. Per un politico varrà sempre il motto «la politique d’abord» (prima di tutto la politica) ma per regista credo valga invece il motto «le cinéma d’abord»!

Marco Tullio GiordanaAnche il tuo modo di raccontare la società, la politica, passa sempre attraverso l’individuo, il singolo: i tuoi film sono storie di persone. Non si tratta mai di cinema a tesi…

Se lo sforzo è raccontare con esattezza la vita dei personaggi che scegli -non necessariamente perché ti identifichi con loro ma perché pensi che in loro possa esservi qualcosa di esemplare e condivisibile – allora tale approccio cancella, inevitabilmente, il rischio di sovrapporsi al racconto, di voler imporre una tesi. Come spettatore, mi sento infastidito quando un film esercita questa pressione. Per tornare al discorso precedente, spesso per comodità i miei film vengono definiti esempi di cinema civile, ma a me questo non piace molto. E’ una definizione che mette subito in allarme, come se il cinema fosse lo strumento di propagazione dell’ideologia. Per me, invece, il cinema è proprio il contrario: lo considero come la dimostrazione dell’impraticabilità dell’ideologia, della sua profonda inattualità (e inutilità dal punto di vista artistico). Il cinema apre la finestra sul mondo (lo diceva Bazin), l’ideologia la chiude o la restringe.

I cento passiNella tua filmografia sembra che ci sia, ad un certo punto, come una cesura. E’ così o c’è invece una linea di continuità?

Per quanto riguarda i soggetti, non mi sembra che nei miei film ci sia una diversa curiosità o tensione. Mi appassionano e indignano più o meno le stesse cose. In questo non credo di essere cambiato. E’ cambiato molto invece il mio rapporto col cinema. Credo sia sopravvenuta, da un certo punto in poi, una diversa consapevolezza nell’uso degli strumenti, forse soprattutto il rendermi conto del peso che vi acquista la recitazione, la figura dell’attore… In altri termini, c’é stato un momento in cui ho capito che per me l’attore era più importante della macchina da presa e delle sue evoluzioni (che da ragazzo mi piacevano moltissimo). Da quando mi sono sentito in grado di girare con una certa disinvoltura, meno preoccupato di esibire la brillantezza delle tecniche che adottavo, ho cominciato a concentrarmi di più sugli attori, sul loro lavoro. E’ stato importante perché ho smesso di lavorare in solitudine. L’attore è un segno, uno degli elementi della messinscena. Per qualcuno è poco più che un burattino. Io lo considero soprattutto una persona che vive, riflette, palpita insieme a te, in grado di farti scoprire un altro punto di vista. Le cose appaiono molto diverse a seconda che tu le guardi da dietro la macchina da presa o dal palcoscenico…

A proposito di attori, in La meglio gioventù vengono perlopiù dal teatro. E’ un fatto casuale o preferisci lavorare con attori con tale formazione?

Preferisco lavorare con attori provenienti dal teatro, non perché il teatro insegni qualcosa di particolarmente utile al cinema. Anzi: il cinema richiede tutt’altro genere di attitudini, di tecniche, di qualità. Si deve addirittura fingere che non ci sia una tecnica. Il cinema, ad esempio, rifiuta la lingua astratta, e insegue invece le provenienze, le culture locali, i dialetti, altrimenti sembra subito doppiaggio (l’italiano è la lingua dei doppiatori – diceva Flaiano).
Negli attori che hanno avuto il teatro come scuola c’è un’attitudine, potrei dire “morale” se la parola non fosse equivoca, al mestiere, un atteggiamento che è meno condizionato dal successo, dalla vanità, dalla riconoscibilità per strada… c’è qualcosa che li anima, come una scelta molto radicale di esistenza, quasi un sacerdozio, dato che quel lavoro richiede molte rinunce e sacrifici. In genere, per gli attori che vengono dal teatro l’arte è più importante della vita: sono quasi consumati da questa ossessione, cosa che permette di lavorare su un’infinità di sfumature e scendere molto in profondità. Naturalmente, mi piace lavorare anche con attori che non hanno questa scuola, non ho snobismi, incontro anche quelli che fanno le telenovele, però con gli attori che arrivano dal teatro c’è una grossa parte di lavoro in meno: tante cose ce le hanno già dentro, se le hanno coltivate da soli. Devo faticare di meno par ripulirli dai vizi, dalle pigrizie, dalle facilonerie.

In La meglio gioventù hai utilizzato anche caratteristiche personali degli attori. Per esempio il diploma di pianoforte di Sonia Bergamasco è servito per il personaggio di Giulia…

Addirittura il fatto che Giulia fosse una musicista è stato riscritto quando abbiamo saputo che Sonia Bergamasco era in grado di suonare il pianoforte. Avere a disposizione un’attrice che potesse suonare in presa diretta, come una vera concertista, ci ha permesso di far capire cose del personaggio che altrimenti avrebbe dovuto “didascalicamente” dirci (o far dire da qualcuno): permetteva di far capire che questo personaggio aveva avuto una grande passione nella sua vita, aveva affrontato mille difficoltà, il pianoforte è uno strumento impegnativo… Essere arrivati a quel livello voleva dire aver studiato a lungo, aver fatto grandi sacrifici, essersi votata a qualcosa addirittura fin da piccola. Cancellando quella passione – così come cancella il marito e la figlia – Giulia rende ancora più esplicita la carica autodistruttiva implicita nella scelta di entrare nel terrorismo, di andare verso la morte, di dare la morte o riceverla.

Nel corso della tua carriera, cosa è cambiato di più nel modo di girare?

Il mio primo film fu realizzato con pochissimi mezzi, non potevo permettermi molte scelte: non avevamo neppure un dolly e i movimenti di macchina furono per forza di cose piuttosto limitati anche se non risparmiai i miei macchinisti dal fare molti carrelli! Nel secondo film, La caduta degli angeli ribelli, girato con più agio, la macchina da presa era in continuo movimento, c’era praticamente un dolly in ogni inquadratura e ricordo – era stato inventata da poco – che fui tra i primi a utilizzare la steadycam. Ero innamorato dei movimenti di macchina, i miei idoli erano Bernardo Bertolucci, Max Ophuls, Orson Welles, Beppe De Santis… Fino a Notti e nebbie pensavo di dover sempre prima architettare il decoupage delle inquadrature, lo spazio in cui muovere la macchina, organizzare le angolazioni… solo dopo venivano gli attori, obbligati a riferirsi a posizioni della macchina sempre molto mosse e complicate. Mi ricordo che Vittorio Mezzogiorno protestava bonariamente: «Sarà pure bellissimo tutto questo, ma se non ci metti in condizione di essere naturali, ci sarà sempre qualcosa di artefatto». Aveva ragione. Nel tempo, pur continuando ad ammirare i mei Bertolucci e Orson Welles, mi sono avvicinato a De Sica, il regista italiano che – insieme a Marco Bellocchio e Gianni Amelio – ha forse ottenuto di più dai suoi attori. Nel senso che ho cominciato a pensare che il corpo dell’attore, la sua identificazione con il personaggio, impone una naturalezza, una verità, che possono essere raggiunte solo se tutto l’apparato tecnico si mette al suo servizio.
Quando ho percepito questo dato come un arricchimento e non più come un limite, ho cambiato completamente il mio modo di girare: ho cominciato a provare la scena con gli attori e, solo dopo averla messa a punto con loro, si piazzavano le luci e si perfezionava la macchina. Poteva sembrare più lungo, in realtà il lavoro si è semplificato.
Il film che segna questo passaggio è Notti e nebbie, tratto dal bel libro di Carlo Castellaneta, dove fu molto importante l’incontro con Umberto Orsini. Umberto, attore che aveva lavorato coi più grandi registi, soprattutto con Visconti, mi ha insegnato tante cose. Era un film di tre ore, la prima volta che collaboravo con la televisione. Orsini era un commissario dell’Ufficio politico di Milano, durante la repubblica di Salò. Un fascista, un eroe negativo, raccontato però con partecipazione e pietas (allora non si era ancora in anni di revisionismo storico: sembrò strano che io facessi un film come quello). Mi ha sempre appassionato quel periodo, più che dalle parti de Il Conformista di Bertolucci mi sentivo dalle parti di Lacombe Lucien di Malle o Tiro al piccione di Montaldo.

(a cura di Mariella Cruciani e Piero Spila)


di Mariella Cruciani
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