Politica e digitalizzazione

I segnali che arrivano al cinema dalla politica non sono incoraggianti. La recente campagna elettorale avrebbe dovuto fornire ai partiti l’occasione per illustrare progetti e impegni finalizzati al rilancio del settore. Invece da parte di nessun schieramento politico sono emerse attenzioni specifiche e particolari nei confronti della cultura, né concrete promesse a sostenere maggiormente, sia dal punto di vista finanziario che normativo, il cinema come tutte le altre espressioni artistiche.

L’ulteriore taglio del FUS, deciso dal governo Monti alla vigilia delle elezioni, ha fornito un altro segnale negativo, non tanto per l’entità della decurtazione, che per ciò che riguarda il cinema è stata di poco più di 4 milioni di euro – i contributi pubblici sono, infatti, scesi da 76,4 a 72,4 milioni di euro – quanto perché testimonia un reiterato disinteresse nei confronti di un settore che potrebbe invece essere trainante, soprattutto in un periodo di crisi, cosa di cui gli esecutivi di altri paesi sono perfettamente consapevoli.

E intanto gravissime preoccupazioni emergono nel settore dell’esercizio. C’è un’urgenza con scadenze ormai imminenti da affrontare al più presto: la conversione al digitale delle sale. Come è noto, dal 1 gennaio 2014 le distribuzioni non forniranno più film in pellicola. Per quella data gli esercenti dovranno pertanto aver provveduto alla sostituzione degli impianti di proiezione. Molti esercenti lo hanno già fatto, molti altri no. Al momento in Italia le sale digitalizzate sono circa il 60% del totale. Naturalmente ad essere rimasto indietro è l’esercizio più povero, marginale e decentrato, ma anche quello più attento e disponibile nei confronti del cinema di qualità: insomma molte di quelle sale che svolgono un prezioso lavoro culturale. Il problema è che il costo necessario alla conversione digitale è oneroso, dai 50 ai 70 mila euro a schermo, e molti esercenti si trovano nell’impossibilità di sostenere la necessaria spesa.

I meccanismi ipotizzati per agevolare e sostenere la trasformazione digitale delle sale, ovvero il Tax shelter, con la possibilità di cessione del credito d’imposta, e il Virtual Print Fee, ovvero il contributo che le distribuzioni, in quanto soggetti maggiormente beneficiari del passaggio al digitale, sono chiamati a versare agli esercenti che programmano film in formato digitale, se hanno concretamente agevolato le grandi strutture, si sono rivelati insufficienti a garantire la sopravvivenza dell’esercizio più debole, anche per una questione di tempistica relativa al recupero del credito di imposta, che per le piccole sale necessita di periodi lunghissimi.

Ma anche i contributi e gli aiuti previsti dai bandi degli enti locali non hanno risolto il problema, perché in molti casi, seppure sono contemplate quote a fondo perduto, si tratta di risorse che vengono concretamente erogate solo successivamente all’installazione dell’impianto, obbligando l’esercente ad anticipare le spese e di fatto mettendolo nelle condizioni di non poter approfittare dell’aiuto.

Per altro da qualche parte si è perfino messa in discussione l’opportunità di un sostegno pubblico alla digitalizzazione dell’esercizio, ma la contestazione non ha senso; in questo caso l’intervento dello Stato è giustificato e confortato dal fatto che la sala cinematografica è sempre stata un centro di aggregazione sociale e culturale. Se non si interviene si arriverà alla desertificazione sia dei centri storici delle metropoli, sia delle città di provincia, oltre che dei piccoli centri con inevitabile depauperamento della qualità della vita quotidiana dei cittadini.

Così, paradossalmente, la digitalizzazione che avrebbe dovuto rappresentare l’occasione di rilancio per il cinema in generale e per le piccole sale in particolare, grazie ad una maggiore disponibilità dell’offerta, ad un abbattimento dei costi di gestione, al recupero di quel patrimonio storico oggi praticamente indisponibile in pellicola e quindi invisibile e soprattutto alla possibilità della multiprogrammazione, particolarmente auspicabile nel caso di strutture che agiscono solitarie in una città o in un bacino d’utenza, rischia di trasformarsi nella pietra tombale per centinaia di sale. L’idea che da qui a qualche mese il panorama dell’esercizio cinematografico italiano potrebbe risultare fortemente ridimensionato, vittima di una inevitabile, crudele decimazione, non è affatto una bella prospettiva. Un mercato strutturato esclusivamente sui grandi circuiti, i multiplex, l’esercizio più commerciale, rappresenterebbe una catastrofe per il futuro del cinema di qualità che non avrebbe più a disposizione un numero adeguato di vetrine, già oggi insufficiente, dove intercettare il proprio pubblico di riferimento. Il risultato sarebbe un impoverimento culturale di enorme portata, perché è chiaro che, se venissero meno i punti di vendita di un certo tipo di cinema, sarebbe inevitabile interromperne anche la produzione.


di Franco Montini
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