Peter Del Monte: il cinema dell’assenza

Delmonte-compagna di viaggio

Delmonte-compagna di viaggio“Assenza, più vicina presenza”: il verso del poeta Attilio Bertolucci si adatta a meraviglia al cinema di Peter Del Monte, da sempre attento al tema dell’identità e del desiderio. Persino il suo primo mediometraggio, Fuori campo (1969), esprime il disagio di due persone non protagoniste, incapaci di aderire totalmente a ciò che succedeva in quegli anni. Significativo è anche il titolo del lavoro successivo, Le parole a venire (1970), tratto dal racconto “I muti” di Albert Camus.

I film degli anni seguenti (Irene Irene, Piso Pisello, Giulia e Giulia racchiudono già nella ripetizione del nome l’essenza di un cinema popolato da doppi e in cui l’oggetto del desiderio, l’Altro, sempre assente, svolge la funzione fondamentale di specchio, di conferma necessaria alla traballante identità del protagonista. “Doppio” e “dubbio” hanno la stessa radice, come in tedesco zweifel (dubbio) e zwei (due): lo spezzarsi dell’unità originaria non interrogata, il venir meno dell’oggetto amato a cui non si riesce a rinunciare, produce una situazione inattesa e ineludibile, una vera e propria crisi.
In Irene Irene (1975), il magistrato sessantenne Guido Boeri, cercando la moglie da cui è stato abbandonato, trova in realtà se stesso e scopre l’inautenticità della propria esistenza. Analogamente, L’altra donna (1980) mostra Olga, signora sui trent’anni della media borghesia, di fronte a se stessa attraverso il confronto-scontro con Regina, una ragazza eritrea da lei assunta come cameriera. Anche il tredicenne Oliviero, con il figlio di due anni, intraprende in Piso Pisello (1981) un viaggio verso una figura assente: un’immagine mitica di donna, una specie di fata-madre.

Il desiderio insopprimibile della persona amata è più che mai evidente in Invitation au voyage (1982), in cui il giovane Lucien non accetta la morte della gemella e si illude di farla rivivere vestendosi e truccandosi come lei, prendendone cioè il posto in una sorta di identificazione malata. Eros, figlio di Penia (povertà, penuria) e Poros (entrata, acquisto), è il farsi strada della mancanza e, insieme, la ricerca dell’espediente per soddisfarla. Così, in Piccoli fuochi (1985), Tommaso, un bambino, è capace di uccidere, pur di avere tutta per sé Mara, la babysitter.
Giulia e Giulia (1987), come un Orfeo e Euridice al contrario, è la storia di una passione talmente forte da negare la realtà e riportare qualcuno in vita: una donna, rimasta vedova il giorno stesso delle nozze, una sera, tornando a casa, ritrova il marito e, con esso, il figlio che avrebbe tanto desiderato. In Etoile (1989), una ballerina è preda di una suggestione misteriosa che la porta a trasfigurarsi, a diventare un’altra, a identificarsi in una donna vissuta cento anni prima.

La ricerca disperata di Sé nell’Altro, l’ambivalenza che essa provoca, è al centro del mosaico di vite sospese che compongono Tracce di vita amorosa (1990), ispirato, probabilmente, ai Frammenti di un discorso amoroso di Roland Barthes. Il film va dall’esperienza del bambino che soffre vedendo la madre occuparsi del fratellino a quella dell’anziano che vive le attenzioni eccessive della compagna come un’oppressione. Il gioco di specchi e la necessità di avere qualcuno da amare per poter esistere realmente tornano prepotentemente in Compagna di viaggio (1996), la più compiuta delle opere di Del Monte. La giovane Cora, senza radici e senza mèta, prende coscienza di se stessa, si riconosce in Cosimo, un anziano signore che si trascina dietro una gracula in gabbia da portare ad una fantomatica amica. La possibilità di una vita diversa, solo intravista da Cora, sarà forse realizzata da Clara, protagonista del recente Controvento.

La filmografia di Del Monte è, dunque, percorsa da un sottile filo rosso: l’incapacità dei suoi personaggi, a tutte le età, di distogliere l’occhio dal proprio taglio e il conseguente tentativo di ritrovare attraverso l’amore, in tutte le sue forme, la pienezza originaria. Nel caso contrario, non resta che perdersi totalmente. Un cinema comunemente definito con aggettivi come sospeso, indefinito si rivela, a ben guardare, radicale e coraggioso, per niente accattivante nell’osservare e registrare percorsi di anime perse, itinerari di deriva. Senza, per questo, escludere l’ipotetica rinascita di tutti coloro che si ostinano ad andare Controvento.


di Mariella Cruciani
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