Per un cinema dell’ambiguità
Che cos’hanno in comune opere tra loro diverse come Colpo di spugna (1981) di Bertrand Tavernier, Assassin(s) (1997) di Mathieu Kassovitz e La vertigine dei sicari (1999) di Barbet Schroeter (di cui peraltro è ben nota la sfortuna critica), se non il fatto di essere politicamente scorretti. Ben venga allora il politically uncorrect ad annunciare la fine già peraltro dichiarata dai movimenti storici d’avanguardia e di pensiero della prima metà del secolo fino all’esistenzialismo, a svelare le radici del desiderio come quelle del male dell’uomo, con il rifiuto categorico del soggettivismo e dei suoi codici etico narrativi (giustapposizione dualistica dei contrari, visione manichea, logica tradizionale del racconto) verso una sorta di morale dell’ambiguità che Simone de Beauvoir, in un famoso saggio del 1947 (Per una morale dell’ambiguità, Garzanti, Milano 1975) ricollega alla dimensione esistenzialista dell'”Essere e il nulla” sartriano: “Per conseguire la sua verità – scrive la De Bauvoir – l’uomo non deve tentare di dissipare l’ambiguità del suo essere, ma viceversa accettare di realizzarla: egli si ricongiunge a se stesso solo nella misura in cui acconsente a rimanere a distanza da se stesso.”
Dei tre personaggi principali (il poliziotto di Colpo di spugna, il grammatico di La vergine dei sicari, l’anziano killer di Assassin(s)) solo il terzo agisce in un contesto umano e sociale apparentemente normalizzato (una Parigi qualunque dove si compiono normali delitti su commissione) pertanto le sue azioni criminose avranno sul piano dell’impatto emotivo e morale una risonanza assai più inquietante se posta a confronto con i modi garbati, da vero gentleman rispettoso delle “regole del gioco”.
Il serial-killer di Kassowitz viene assumendo i caratteri “morali” rovesciati di un buon borghese artigiano dai modi gentili che rispetta le regole, che desidera trasmettere i ferri del mestiere e i suoi segreti al proprio discepolo (che incarna perfettamente il prodotto degradato di una cultura basata sull’autorità e sull’influenza dei “cattivi maestri”).
Un killer, dunque, che fa propria la morale borghese, evidenziandone non tanto i risultati, quanto invece il carattere simbolico o se si vuole la sua rappresentabilità sulla scena del sistema sociale che esige che ciascuno abbia un ruolo, un’apparenza e una logica che ne giustifichi e legittimi le azioni. E l’anziano killer (un Michael Serrault superbo) tale logica conosce e usa con la stessa impeccabilità di un direttore di banca.
Al contrario nella Medellin contemporanea del film di Schroeter i delitti sono il pane quotidiano, si susseguono uno dopo l’altro come i grani di un rosario. Essi sono semplicemente cronaca. Ma quando l’homo faber, l’homo grammaticus, si fa complice di alcuni di essi attraverso l’elemento scatenante dell’eros, allora il proprio desiderio di onnipotenza, sia pur per interposta persona (ma è lui il vero soggetto di scandalo) si è finalmente compiuto.
Nel romanzo di Fernando Vallejo (Guanda, 2000) ancor più che nel film scritto da Schroeter con lo stesso Vallejo, è avvertibile il disperato nichilismo di colui che mescola con demiurgica ossessione l’orrore con la necessità dell’orrore, l’amour fou per il ragazzo assassino con la morte di Dio, l’oblio della memoria (di sé stesso, della città divenuta un orrendo groviglio umano dietro il quale, tuttavia, si cela l’antica bellezza) con un presente che grida, che strepita, che esige la propria distruzione.
Anche il poliziotto inetto, un po’ viscido e codardo di Tavernier, il Nick Korey del romanzo Pop 1280 (Colpo di spugna, Longanesi, 1987), agisce in un contesto esotico estraneo alla civiltà e alla morale occidentale (uno stato francofono dell’Africa equatoriale) dove tutto alla fine viene permesso, ma il delitto compiuto dal poliziotto, che fa strage della moglie, dell’amante e della sua stessa amante, risponde perfettamente ad una richiesta di efficienza imposta dalle stesse regole sociali della comunità, anzi, dal medesimo contesto familiare (la moglie fedifraga, l’amante etc.) e quello delle autorità superiori che trasformano il piccolo uomo in una vittima dei loro soprusi e in seguito nel loro stesso carnefice. Solo commettendo un crimine efferato, contro la famiglia e i suoi simili, il poliziotto (sorta di Woyzek tragicomico) potrà rendere finalmente conto delle proprie qualità e funzioni di “uomo della legge”. Ma è verso gli innocenti, i ragazzini di colore del villaggio che egli esprimerà la sua ansia definitiva e inderogabile di giustizia e di pietà: privare loro della vita, ossia dell’infelicità e della miseria che deve restare soprattutto degli uomini vili, dei colonizzatori.
Ad ogni atto di pietà dunque corrisponde un gesto consapevole di crudeltà. Nella logica perversa dei sommersi e dei salvati, a questi ultimi (i bambini africani e i miserabili di Medellin) è riservata l’orazione funebre dell’uomo “nel suo vano tentativo di essere Dio” in una civiltà segnata dal peccato originale, dove si assiste ormai alla definitiva capitolazione dell’io prigioniero dei suoi stessi paradossi.
di Maurizio Fantoni Minnella