Nuovo cinema italiano: ripartire dall’osservazione del reale
Negli anni dell’immediato dopoguerra, i maestri del neorealismo Rossellini, De Sica, Visconti, rivoluzionavano il racconto cinematografico opponendo alla rappresentazione fasulla e poco fedele della realtà che dominava l’industria cinematografica dell’epoca, un’immagine più vicina alla percezione comune. L’individuazione dell’osservazione del reale, come punto focale in cui far confluire ideali etici ed estetici, favoriva la nascita di un cinema nuovo, capace di riflettere i cambiamenti degli umori e delle condizioni di vita e al tempo stesso di promuovere valori universali.
Questa breve premessa può forse essere utile per comprendere, almeno in parte, il fenomeno in base al quale oggi assistiamo nuovamente a un moto reazionario dell’establishment cinematografico, restio se non del tutto impermeabile a registrare i cambiamenti avvenuti nel nostro tessuto sociale, economico e culturale negli anni che hanno seguito, e che ancora seguono, la grande crisi del 2008.
Dalla commedia “pecoreccia” a quella borghese che dominano indisturbate il mercato delle nostre sale e il sistema produttivo italiano, ma anche un certo cinema d’autore che vorrebbe nelle intenzioni rifarsi a una matrice neorealista, ma nei fatti tradisce i maestri sia per forma che per contenuti, quello fotografato negli attici, le cucine e le terrazze è un presente in via d’estinzione che poco ha che fare con il senso di incertezza e precarietà che dilaga nelle nostre case, abbracciando democraticamente quasi tutti i ceti, dai più bassi fino a quelli medio-alti.
Tuttavia (e per fortuna) accanto al prevalere di una visione miope e conservatrice, specchio di un’Italia alla disperata ricerca di certezze che trova nei confini del noto un anestetico alla propria arretratezza culturale, segnali di ottimismo provengono invece, oltre che da un rinnovato gusto per il cinema di genere, dalla produzione indipendente periferica (in senso geografico, perché decentrata rispetto alle logiche produttive romane), più ricettiva dei mutamenti in atto e altrettanto vivace nella ricerca di una forma-cinema nuova e distante dai cliché.
Esordi significativi delle ultime stagioni come “L’estate di Giacomo” di Alessandro Comodin, “Tir” di Alberto Fasulo, “I resti di Bisanzio” di Carlo Michele Schirinzi, “Ananke” di Claudio Romano o “I cormorani” di Fabio Bobbio, trasmettono infatti la vitalità di un cinema che, seppure ai margini del visibile, è ancora in grado di interrogarsi e di sorprendere, di scuotersi e reagire, rifiutando di esprimersi attraverso formule consolatorie preconfezionate.
L’elenco non è esaustivo. Assieme a questi titoli andrebbero per completezza menzionati diversi altri tra quelli che negli ultimi anni si sono imposti per freschezza e lucidità. “L’intervallo” di Leonardo Di Costanzo, per fare un altro esempio, “Materia oscura” e “Il castello” di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti, “Bellas mariposas” di Salvatore Mereu e altri ancora. Alcuni nuovi autori, tra questi Andrea Pallaoro, Roberto Minervini, Gianfranco Rosi o Claudio Cupellini, hanno persino scelto di allargare lo sguardo girando all’estero per poter esprimere più liberamente il loro indiscutibile talento.
Ma c’è una ragione se si è scelto di focalizzare l’attenzione, in questo frangente, sulle notevolissime opere di Comodin, Fasulo, Schirinzi, Romano e Bobbio: un tratto particolare che li accomuna. Oltre a esplorare con assoluta libertà e una certa (gradita) sfacciataggine il concetto di fiction, questi autori hanno più o meno consapevolmente interpretato attraverso l’assenza, la negazione o il volontario depistaggio delle coordinate geografiche e spaziali, uno stato d’animo, la fragilità e l’insicurezza cui dianzi si faceva riferimento. Un vagabondare che nulla ha a che fare con la flânerie di fine ‘800, ma presenta piuttosto i tratti di uno smarrimento esistenziale che affonda le radici nel pedinamento zavattiniano, nel doloroso vagare del piccolo Edmund Koehler di “Germania anno zero”, nel mesto incedere di “Umberto D” o nel moto perpetuo di Marcello ne “La dolce vita”, icona definitiva della crisi esistenziale che ha afflitto la classe borghese a cavallo tra gli anni ’50 e ’60. Senza dimenticare neppure le nouvelle vagues del cinema dell’est o il free cinema inglese, spesso abitati da giovani che si aggirano per la città in perenne spostamento, senza punti di riferimento né certezze a cui aggrapparsi.
Non in tutti i casi la declinazione risulta drammatica come negli esempi appena riportati. L’errare di Giacomo nella campagna friulana nel film di Comodin, e in modo ancora più evidente il vagare senza meta di Samuele e Matteo, i “cormorani” del bellissimo esordio di Bobbio che passano i loro pomeriggi tra strade deserte, centri commerciali, capannoni dismessi e le assolate campagne del Canavese, hanno a che fare con un percorso di crescita, con l’esplorazione di un territorio e di una stagione -l’adolescenza- incerta per sua natura, più che con una dimensione di disagio sociale. Diverso appare il contesto per Branko, il protagonista del film di Fasulo che, lasciato il poco redditizio incarico di insegnante a Rijeka, decide di salire su un camion per offrire alla famiglia un presente e un futuro migliori. In “Tir”, infatti, l’assenza di coordinate, la distanza da casa, la permanenza forzata nella cabina del mezzo che macina chilometri su chilometri attraversando le strade di mezza Europa, diventa un chiaro sintomo di alienazione.
Così come segnali di inquietudine esistenziale sono quelli trasmessi ne “I resti di Bisanzio” e in “Ananke”. Nel primo, il vagare dei protagonisti nel Salento con l’intenzione di dar fuoco a tutto, tra le macerie di un passato lasciato a marcire e un presente di speculazione, si traduce in azione eversiva rivoluzionaria; nel secondo, seguendo un uomo e una donna in fuga da una pandemia attraverso impervi sentieri di montagna, coincide con la ricerca di un percorso di salvezza e di rinascita.
“No direction home”, cantava Bob Dylan nel 1965 nel ritornello di “Like a Rolling Stone” descrivendo un mondo in drastico cambiamento al quale la protagonista della canzone avrebbe dovuto adattarsi dopo aver vissuto per anni nell’agio e nel benessere. Quando ci si trova “come perfetti sconosciuti” a vagare senza meta, “come pietre rotolanti” (ancora Dylan). Qualcosa che somiglia molto all’oggi e al nostro sentire comune. E proprio come fecero i maestri del neorealismo settanta anni fa, sembra che sia nuovamente nella rappresentazione di questo senso di smarrimento che il nuovo cinema italiano abbia trovato una felice intuizione e la propria strada da percorrere. Ripartendo nuovamente, come alle origini del cinema, dall’osservazione del reale.
di Redazione