Nuotando nella vita segreta delle parole – Una difesa critica del film di Isabelle Coixet

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vita-segreta-paroleIl silenzio di Agamennone di fronte a Clitemnestra – nell’Ifigenia in Aulide di Euripide – sarà pure la dimostrazione nella tragedia di un accordo tacito, per l’appunto. Ma non è così per il silenzio di Hanna (Sarah Polley) – nella tragedia pur mixata con molti altri ge-neri La vita segreta delle parole di Isabel Coixet, già snobbata dai più e amata in silenzioso entusiasmo da nicchie di aficionados allo scorso Festival di Venezia 2005, già silenziosamente attesa nell’uscita sugli schermi italiani, primavera 2006 –, un silenzio che è nei migliori dei casi semplicemente difensivo rispetto al mondo e agli altri, ma probabilmente anche di tacito disaccordo quando non di tacita ma feroce e intollerabile rabbia nei confronti del passato suo (una storia di non-sostenibile violenza risalente alla guerra nell’ex Jugoslavia) e anche del presente tutt’attorno a lei, presenza degli altri inclusa.
Hanna fesìn siopòn, parla tacendo. Così avrebbero scritto i tragici greci, con un ossimoro che costituiva uno stilema quasi proverbiale. L’ossimoro, nell’ultima opera della Coixet, da intendersi in senso lato come avvicinamento degli opposti, è una ricorrente soluzione estetica: la ferita fisica / la ferita psichica; ascoltare / vedere; curare / esser curati; sedurre / respingere; vivere / sopravvivere; ovviamente, la presenza di lui / la presenza di lei; e ancora, il non luogo dell’isola di metallo in mezzo al mare / i luoghi e le isole di sentimenti in mezzo ai ricordi. Si potrebbe continuare a lungo.
Il silenzio, per altro, è la precisa condizione attraverso la quale le parole possano animarsi di una vita segreta. Tra signifi-cante e significato le distanze si alla(r)gano. Precisamente, nello iato di un lungo e doloroso silenzio, le parole di Hanna (come acca-drebbe a chiunque altro, vien fatto di sottolineare) si inondano e anche ravvivano di un plusvalore emotivo che è appunto segreto, sempre più difficile col tempo quanto più prezioso da comunicare, come assorbendo riflessioni e conversazioni taciute, lacrime ingoiate, ferite eloquenti. Le parole divengono anche ossimoriche, segretamente: un «ti amo» può corrispondere a un «ti abbandono», se il proprio malessere interiore ha talmente inondato la parola «amo» da farle assumere il significato «voglio il tuo bene, dunque io non voglio addolorarti oltre», per fare solo uno degli esempi possibili. Tutto si fa molto complesso e difficile, ma tutto si fa anche molto interessante. Ritornare a parlare, pertanto, non può che accadere – per Hanna – immaginando un orecchio capace di rispetto per questo altro significato che le parole hanno lasciato fiorire in sé. A proposito: Hanna, in conseguenza alle torture subite, è (anche simbolicamente) rimasta debole d’udito, ed è davvero difficile – per lei – immaginare che qualcun altro abbia orecchie in grado di sentire sensibilimente.

Per antitesi, o continuando nella logica degli ossimori, Josef (Tim Robbins) è un uomo gravemente ustionato a bordo di una piattaforma petrolifera, nonché temporaneamente cieco. David Byrne, Clem Snide, Sweat & Tears, Blood, pop portoghese: sono molte le waves musicali-marine che s’infrangono contro la sua piattaforma-palcoscenico. Una donna, accettando un breve incarico, accorre al suo capezzale sperso in mezzo alle acque, in un paesaggio che risulta sinistramente deserto e marino-non-marino, quasi da territorio polveroso fra rovine post-belliche, là dove gli azzurri vengono sopraffatti dai grigi. Josef parla e lentamente si svela alla sua infermiera, che (guarda caso) è Hanna. Hanna ascolta, lascia che Josef ascolti il suo silenzio e si innamori delle parole che vi stanno dietro, e poi della donna.
(Ma Hanna avrebbe soprattutto bisogno di esser vista e ascoltata, e in particolar modo non è affatto certa di sapere regge-re l’instaurarsi di una relazione profonda, in cui inevitabilmente verrebbe a contatto con se stessa e col segreto, che sa di guerra ed è talora più orrendo di quanto una mente possa sopportare, e che sa di parole per anni taciute).

Josef, dalla pseudoprigionia del letto di degenza, rimprovera con ferocia, e con parole neppure troppo segrete, nessun altro se non se stesso. Si tormenta per non aver visto a fondo la vita segreta dei sentimenti (un’amicizia da lui tradita, l’innamoramento forse sbagliato per la donna dell’amico), segreti che si sono incanalati in un rogo, nel tentato suicidio dell’amico, nello sforzo (vano) di Josef di salvarlo, nel diluvio di sensi di colpa in cui – ora – si trova ad ondeggiare. Si illude, o invece semplicemente spera, di poter vedere / ascoltare a fondo la vita segreta delle parole di Hanna e poi di amarla e di prendersi cura totalmente di lei – ribaltando, per inciso, i ruoli paziente / infermiera – anche come segreta riparazione alla cecità emotiva che lo rimorde fra le bende. Almeno, vorrebbe provarci.
Le critiche al film sono state molte, va detto, fatte di parole a senso unico, dalla vita nient’affatto segreta. Ripassiamole. S’è detto del ritorno d’un costrutto iper-emotivo, ricattatorio, alla Breaking the Waves / Le onde del destino (di Lars Von Trier, 1996), con un’Emily Watson trapassata a stile minimal, tipo Sarah Polley, appunto (già presente nella scorsa prova della regista catalana Coixet, prova effettivamente per più versi discutibile, intitolata La mia vita senza me, Spagna / Canada 2002). Dal punto di vista del “materiale narrativo” (posto che sia possibile scindere forma e contenuto…), s’è lamentata l’assenza di una separazione fra territorio della tragedia e quello dell’«estremist soap opera», come fra l’altro il film è stato etichettato. E insieme, s’è riconosciuto al piano per così dire “estetico” (posto che sia possibile… ad lib) ed in particolar modo alla sobria interpretazione dei due protagonisti, una sorta di “contenimento” dell’estremismo emotivo sopra denunciato. S’è giudicato «risibile», letteralmente, il fatto che, nel copione, compaiano situazioni e frasi molto intense: si prenda ad esempio la sequenza finale di lei in lacrime, terrorizzata dal potersi lasciarsi andare a lui, sicura che un giorno rovinerà tutto iniziando a piangere senza riuscire a smettere mai, con lui prima titubante, poi capace di rispondere con forza e disperazione assieme, abbracciandola sia fisicamente che psicologicamente, e dicendo un non semplice: «Imparerò a nuotare» (e qui il pubblico si commuove, sì, si commuove, ma «I nearly laughed when Robbins said “I’ll learn to swim”», bacchetta Chris Cabin di Film Critic, concludendo con un inappellabile «It’s boring», che scocciatura!).

Di fronte a queste come ad altre stroncature, ma con l’entusiasmo ben vivo in mente e anzi rafforzato da altri spettatori che – ora, all’uscita in sala – hanno potuto amare il film, ci troviamo a scegliere il silenzio come arma critica. Paradossale per qualsiasi altro film che dovremmo / vorremmo difendere, siamo d’accordo, ma forse non per questo. E non certo perché «Proprio il nostro non proferir parola dimostra che siamo d’accordo», per parafrasare la citazione posta in cima dell’articolo, ma per le ragioni opposte – che poi sono le ragioni del film, del silenzio preferito all’accumularsi delle frasi, della difficoltà di dire un’emozione intensa, delle vie e delle vite tortuose ed inusuali che le parole, quando aderiscono alle emozioni autentiche, iniziano a prendere –. Lasciare che gli spettatori “imparino a nuotare” nella Vita segreta delle parole dà la certezza che, in ognuno di loro, a fine proiezione, le parole a forma di fotogramma del film vivranno una vita appunto segreta – se il film è amato, se vibra, se funziona, altrimenti via, pensare ad altro, non c’è recensione che tenga… –, in modi tanto diversi quanto sono le orecchie e gli occhi degli spettatori, senza che vi sia un solo articolo di critica – anche il faraonico Internet Movie Database, non è un caso, ne è curiosamente poco provvisto – in grado di catturare o svelare alcunché. Questa astensione, a dire il vero, ci pare il miglior complimento o ringraziamento nei confronti di Isabel Coixet. Come se anche un critico, alla pari di Hanna, potesse dire che il suo articolo fesìn siopòn, parla tacendo.


di Gabriele Barrera
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