Moroni, la storia del cinema italiano e del lupo
Il successo di pubblico di Tu devi essere il lupo (film italiano, giovane, low-budget) è andato contro ogni aspettati-va, dando il via a 1.000 interpretazioni. Un risultato così, lo incaselli o fa paura. Vorrà per caso dire che il sistema-cinema, da noi, funziona male? Cinecritica ha intervistato chi, meglio di chiunque altro, conosce la storia del Lupo.
Tre giovani autori hanno appena attraversato la foresta del Lupo, il labirinto produttivo e distributivo di un cinema italiano che, evidentemente, nasconde più insidie di quante si immagini. Avevano un film bell’e finito fra le mani – bello non nel senso fraseologico, ma qualitativo: Tu devi essere il lupo, recensito nel numero scorso di questa rivista – e sono dovuti intervenire d’emergenza perché nessun distributore, all’improvviso, voleva sostenere il film in modo degno. Hanno fondato “MySelf”, sono riusciti a distribuire il film con un salvagente che ha fatto molto discutere. Tanto più perché il Lupo, andando oltre l’abbrivio dato da “MySelf”, ha avuto sorprendenti successi di pubblico. Ne parliamo con Vittorio Moroni, regista; Alessandro Lombardo, sceneggiatore; Valentina Carnelutti, attrice.
Partiamo da “MySelf”, casa di distribuzione da voi fondata facendo di necessità virtù. Lo sforzo vi ha permesso di portare il film in sala, col contributo della “Pablo”: sforzo premiato sia dall’interesse per l’operazione in sé, sia dal successo di pubblico. Alcuni hanno gridato al miracolo, sostenendo che finalmente si è trovata la soluzione creativa ai problemi del cinema italiano; altri allo scandalo, sostenendo che non è una soluzione, ma l’ennesimo segnale d’allarme, più inquietante di altri. Come la mettiamo?MORONI – Con “MySelf”, in effetti, le cose sono andate al di là delle aspettative più rosee, se si tiene conto che – a film già finito, già spesi i fondi-produzione – tutti dicevano che senza un fondo alla distribuzione non se la sentivano di distribuire il Lupo. «Se siete fortunati arriverete a 3.000 spettatori». Invece a Roma e Torino alla VI settimana di permanenza in sala, a Milano alla V, avevamo già superato i 13.000 spettatori. Tutto senza manifesti affissi, senza parapedonali, con soli 6 trailers in tivù, e qualche flano sui giornali. Il fatto è che si è creato un ponte con il pubblico. La “MySelf” è servita a gettare questo ponte, col suo sforzo di difendere il film e combattere per farlo arrivare a contatto con un pubblico. Prevendita, feste, aste, tutte le strategie per far sapere che il film esisteva ci hanno assicurato il pubblico delle prime 2 settimane al massimo. Il resto poi è venuto dal Lupo, che ha cominciato a camminare con le sue gambe. Col passaparola si è creato un sodalizio con spettatori interessati proprio a un film così, proprio a una storia come il Lupo. In barba ai cattivi profeti e al colpevole pessimismo di un sistema che, di fatto, mi sembra boicotti il cinema italiano.
LOMBARDO – Forse il termine è abusato, ma c’è stata una autentica partecipazione popolare. È questa che ha decretato il successo del Lupo. “MySelf”, come dice Vittorio, è solo una parte di ciò. Nessuno di noi pensa-va lontanamente di doverla fondare, di dover distribuire in proprio. Perciò è stato un bene, pur nel lavoro immenso, nello sforzo ripagato. Però “MySelf” era ed è l’indicatore di un problema del sistema cinema-italiano. Non può essere la soluzione, sinceramente spero non nascano altre “MySelf”. Significherebbe che la cinematografia italiana resta una cinematografia indifesa. Qualcosa per cui si spende fino a un certo punto (la produzione), ma che poi non è supportata adeguatamente in una fase come la distribuzione, determinante per raggiungere il pubblico. Che senso ha dire che «il botteghino non premia i registi esordienti»? Con la classica “uscita tecnica” – una settimana in sala, poi via, senza adeguata pubblicità – sfido il pubblico ad interessarsi. Una scelta come la nostra non può che essere anche un limite. Non deve far pensare che così debba essere fatto, ognuno da sé. Vorrebbe dire deresponsabilizzare il sistema-cinema.
CARNELUTTI – Sulla “MySelf” anch’io ho due risposte: una istintiva, una razionale. La prima riguarda il mio modo di reagire alla situazione in cui ci siamo ritrovati a film finito. Sono stata io, in una telefonata a Vittorio, dopo l’ennesimo rifiuto distributivo, a dire «e se il film lo distribuissimo noi?». Istintiva, credendo nel Lupo – che è un’opera onesta, intelligente, accurata (per me conditio sine qua non), non ho voluto accasciarmi nella poltrona della lamentela sul cinema italiano. Tra parentesi, corrisponde a un modo innato di pensare al mio mestiere, fare l’attrice: lavoro per una sorta di fame interiore, mi nutro del mio lavoro, sono disposta a curare con passione e a difendere ciò che faccio. Però, trasformata la nostra disgrazia se vuoi in pubblicità sui generis, ricevute telefonate del tipo «non è che “MySelf” può distribuire anche il mio film?» oppure «potete insegnarci come si fa?», non voglio pensare o far pensare che questa sia la soluzione. Si deve essere disposti, messi in condizioni estreme, ad atti estremi d’amore com’è “MySelf”. Ma non può essere la regola. Ecco la risposta razionale.
In effetti, messo in moto il meccanismo per fare conoscere il film al pubblico, gli spettatori hanno rea-gito: il rapporto fra copie in circolazione e biglietti staccati è stato indicato come forse il più alto della stagione cinematografica. E ciò accade per una storia anomala (una madre che abbandona sua figlia, un uo-mo che decide di crescerla pur non essendone il padre) messa in scena in modi felicemente anomali (uno per tutti, l’assenza di giudizi e caselle in cui chiudere i personaggi, tanto che la critica più frequente, da parte della stampa, è stata «bello, peccato per quei personaggi inconclusi», come se non fosse un pregio). Quest’ultima particolarità, mi è parso, è andata a toccare in profondità gli spettatori. È così?
MORONI – Tocchi il punto basilare, almeno per me. La posizione dell’epoché, l’astensione dal giudizio, è un prerequisito fondamentale. Se il cinema ha un compito, se il mio cinema ha un compito, è quello di individuare dei conflitti che focalizzino nuove frontiere tra bene e male e che pongano domande, agli autori come agli spettatori. E allora è impensabile che il cinema proponga o rifili di sottecchi al pubblico facili risoluzioni dei conflitti che ha evocato. Penso invece, come modelli, ai fratelli Dardenne, al conflitto lacerante ne Il figlio, a un cinema fatto di aperture, dall’immensità d’apertura di un Anghelopulos arrivando addirittura all’astensione narrativa di Questa è la mia vita di Godard. Chi ha mai detto che tutto il pubblico voglia storie convenzionali e giudizi confezionati?
LOMBARDO – Ho osservato la gente che usciva dal Lupo, sono sicuro che la nostra astensione dal giudizio giochi a favore del film. Discutevano. Alcuni dicevano «la madre è una stronza, abbandonare la figlia così», altri invece « in realtà la ama, non ha voluto distruggere il rapporto fra figlia e padre incontrandola dopo tanti anni, è una prova di rispetto», altri ancora «il padre è un santo», altri «è senza palle». Alcuni produttori ci avevano chiesto, minacciando di non co-produrre il film (e così è stato), di narrare la stessa storia con un finale che quadrasse il cerchio. In armonia con l’icona madre-madonna italiana. Certo questo ci avrebbe forse dato maggiori passaggi in televisione, ma sarebbe andato a scapito del rispetto degli aspetti ambivalenti dei personaggi.
CARNELUTTI – L’astensione del giudizio è una delle ragioni per cui ho deciso di lavorare per il Lupo, è stata la verità che mi sembrava venisse rispettata nella piccola sinossi che ho da subito letto. Quando ho poi af-frontato la sceneggiatura, ciò che mi pareva più interessante era come gestire – io, madre di due figlie – il personaggio di una donna che decide di abbandonare ciò che ha portato in grembo per mesi. Temevo di non esserne capace, di giudicare. La prima cosa da fare era sospendere il giudizio. Ho letto storie di abbandoni, storie di ricongiungimenti (che non è detto siano le soluzioni migliori), ho anche pensato a questa madre come a una donna che in realtà abbandona per naturale istinto di protezione, perché sa di non esser in grado, inconsciamente non vuole danneggiare la figlia. Ma anche questa casella psicoanalitica è stata abbandonata. Allora ho scritto un mio “Diario del personaggio” inventandomi le parti della storia che mancavano ma che a me servivano per potervi aderire. Né ho voluto chiedermi cosa avrebbe pensato il pubblico, sarei rimasta paralizzata. Quando poi ho avuto occasione di incontrare il pubblico ho sentito uno sguardo caldo: non di riprovazione, casomai di compassione. Ho pensato di essere riuscita a trovare, quindi proporre l’amore per questo personaggio. Il dito, non era puntato.
Ognuno di voi ha osservato il pubblico con intima apprensione, un po’ come si aspettano le prime volte i figli fuori dalla scuola. Anche tu, Vittorio?
MORONI – Anch’io, sì. M’ero accorto che incontrare gli spettatori dopo il film, magari ai dibattiti, non faceva uscire che parte della verità. Così mi presentavo al cinema alle 22 e 15, prima dell’ultimo spettacolo, fingen-domi uno spettatore indeciso per chiedere a quelli che uscivano se valeva la pena di entrare a vedere il Lupo. Era il momento della verità, un attimo prima che verbalizzassero un giudizio. Se avessero pensato «è una porcheria», l’avrebbero detto lì. Invece ho sentito affetto per il film, ho visto che aveva toccato profondamente molte persone, soprattutto donne. È stata un’esperienza di grande intimità con persone sconosciute.
di Gabriele Barrera