L’esperienza di Arturo Annecchino e le nuove proposte della musica italiana per film
Negli ultimi anni il mondo della musica filmica italiana ha assistito ad un profondo ricambio generazionale, fermo restando il nume tutelare del quasi 90enne e iperattivo Ennio Morricone.

Negli ultimi anni il mondo della musica filmica italiana ha assistito ad un profondo ricambio generazionale. Fermo restando il nume tutelare del quasi 90enne e iperattivo Ennio Morricone, e la lezione dei compositori a lui successivi (Nicola Piovani, Franco Piersanti, Carlo Crivelli, Pino Donaggio per citarne solo alcuni), emergono continuamente figure più giovani o giovanissime che cercano – e spesso trovano – strade creative nuove, stimolati da registi e film fuori dal coro delle solite commedie vacanziere, e nondimeno capaci di attirare il pubblico sottraendolo all’invasione endemica dei sequel-reboot-prequel-remake in salsa blockbuster.
Alcuni di questi talenti hanno da tempo scelto la via dell’estero, come Marco Beltrami, specialista in horror, o Dario Marianelli, musicista di molti film in costume e letterari, o Maurizio Malagnini, spigliato e delicato inventore di partiture televisive (Al Paradiso delle signore). Ma molti altri hanno deciso di giocarsela qui, e con successo. Qualche anno fa fu già la scelta di talenti come Paolo Buonvino (Romanzo criminale, Caos calmo, il cinema di Muccino), Andrea Guerra, musicista di Ozpetek e Faenza, o del duo Pivio (Roberto Pischiutta)-Aldo De Scalzi (ancora Ozpetek, ma anche Monteleone e Martinelli), magari alternando collaborazioni per piccoli film indipendenti a produzioni straniere più impegnative e di genere, come nel caso di Marco Werba (Zoo della Comencini ma anche lo sfortunato Giallo di Argento e l’horror The infliction di Nathan Harris). Altri hanno scelto di specializzarsi in un genere come Claudio Simonetti, “animna” dei Goblin e quindi della musica per il cinema argentiano e più in generale horror made in Italy, o di tentare autonomamente qualunque strada consenta nuove ricerche e sperimentazioni, come Kristian Sensini e le sue partiture per gli horror “self made” di Domiziano Cristopharo.
Ma come si diceva sono i nostri registi di punta a sollecitare maggiormente i talenti compositivi oggi più in vista: così Paolo Sorrentino si è valso delle sofisticate scenografie sonore di Teho Teardo come dei rarefatti affreschi di Pasquale Catalano o del variegato polistilismo di Lele Marchitelli (Young Pope), mentre Matteo Garrone ha mobilitato quel formidabile gruppo di strumentisti che è la Banda Osiris; e se Peppuccio Tornatore si tiene stretto il proprio legame privilegiato con Morricone, Gabriele Salvatores ha sollecitato l’incontenibile e multiforme estro di Ezio Bosso. Ma impossibile non citare ancora almeno Andrea Farri (Gli sfiorati, Veloce come il vento), Francesco Cerasi (i film di Ivano De Matteo), Paolo Vivaldi (Maternity Blues, Non essere cattivo), Alessandro Forti e Francesco De Luca (Dieci inverni), Umberto Scipione (Benvenuti al Sud, Benvenuti al Nord, Sotto una buona stella), Valerio Vigliar (L’ultimo terrestre), Giorgio Giampà (Il padre d’Italia), Valerio Faggioni (Questi giorni, Sole, cuore, amore), Lorenzo Tomio (Omicidio all’italiana, Piuma), Stefano Milella (Solo per il weekend, Il Sud è niente), Giovanni Rotondo (Ilaria Alpi l’ultimo viaggio), Roberto Cimpanelli (Un inverno freddo freddo), Michele Braga (Lo chiamavano Jeeg Robot) Carlo Virzì, sodale del fratello Paolo, Massimiano Lazzaretti (Il traduttore), Salvatore Sangiovanni (The transparent woman con Susan DiBona), e due outsider femminili come Rossella Spinosa e Francesca Badalini. Un elenco, come si vede, che spazia fra autori e generi diversissimi, comunque solo parziale e che andrebbe esteso anche alla tv, spesso occasione per far emergere talenti notevoli anche sul piano della ricerca musicale: come il duo Bottega del Suono (Corrado Carosio e Pierangelo Fornaro, Rocco Schiavone), o Stefano Lentini (La porta rossa), o Ludovico Fulci (I bastardi di Pizzofalcone).
L’italo-venezuelano Arturo Annecchino, classe 1954, non è certo ascrivibile alla categoria diciamo così “giovani proposte”: è infatti un compositore di vastissima esperienza, costruitosi nel difficile genere della musica di scena, applicata sia al teatro di prosa che alla danza, dove la sua formazione complessa e stratificata ha avuto modo di esplicarsi al servizio di registi come Giancarlo Sepe, Peter Stein (il monumentale Faust di 21 ore all’Expo di Hannover del 2000), Walter Pagliaro, Luigi Squarzina. Una serie di esperienze che ne ha solleticato e sollecitato la spinta ad assorbire una varietà infinita di linguaggi e di stili, dalla musica lirica al jazz, dall’avanguardia al gregoriano, dal rock al camerismo neoclassico. Al cinema collabora sin dagli anni ’80 (Confusione di Natoli, Musica per vecchi animali di Benni e Angelucci), ma è divenendo il compositore di fiducia della coppia Castellitto-Mazzantini che il suo talento sensibile, discreto, vigilato, ha avuto modo di esprimersi appieno (soprattutto con La bellezza del somaro, mirabile esempio di eclettico understatement musicale). E non fa eccezione la partitura per l’ultimo… fortunato Fortunata, premio per la migliore attrice al Certain Regard di Cannes per Jasmine Trinca. In un soundtrack dove c’è posto anche per i Cure e per Vasco Rossi, Annecchino si ritaglia uno spazio di sapienti sottrazioni sonore, dominate da un pianoforte che sembra continuamente interrogarsi senza dare risposte, tra lunghe pause, rintocchi di basso e vaghe eco elettroniche. La tastiera sembra in particolare accarezzare ripetutamente un tema di disarmante semplicità e bellezza, esposto con programmata incertezza e raddoppiato dalla malinconica, notturna tromba di Luca Aquino. Una musica incantata, ipnotizzante e ostile a qualsiasi compiacimento enfatico. In sintesi, una lezione di stile.
In foto: Jasmine Trinca in Fortunata (2017) – regia Sergio Castellitto, musica Arturo Annecchino.
di Roberto Pugliese