Le due volte di Michelangelo

Le quattro volte, di Michelangelo Frammartino

Il saggio di Anton Giulio Mancino su Michelangelo Frammartino è stato pubblicato sul n.70-71 di CineCritica nell’ambito del numero speciale dedicato al Nuovo Cinema Italiano.

Non sono molti i Michelangelo in cui ci imbattiamo scorrendo l’intera storia del cinema italiano. Appena due, Michelangelo Antonioni e Michelangelo Frammartino. Entrambi, per quanto lontani e assolutamente incompatibili, hanno avuto (Antonioni) o hanno (Frammartino) un rapporto molto complesso con il realismo, asse portante del cinema italiano di ieri, di oggi, di sempre, siglato da una propensione al silenzio, inteso come rarefazione ostentata, sistematica della parola e dei dialoghi, e all’eloquenza delle immagini e dei suoni, gestiti con rigore geometrico, architettonico. Una strategia del silenzio, insomma, dell’osservazione, della fenomenologia, che non fa il gioco di nessuno. Parlare nei loro casi di architetture dell’audiovisione è opportuno. Però le analogie, frutto di una suggestione onomastica che pure riflette un’alterità emblematica rispetto al contesto cinematografico nel quale i due, ciascuno a suo modo, ha operato, terminano qui. Il paragone tra i due unici Michelangelo del cinema italiano non ci porterebbe molto lontano. Frammartino, del resto, espressamente o per attribuzione esterna, troverebbe maggiore consonanza con altri autori, a cominciare da Vittorio De Seta, con il quale ha condiviso nei suoi due lungometraggi, Il dono (2003) e Le quattro volte (2010), uno spazio non soltanto geografico, antropologico e sociale, quale quello calabrese, ma soprattutto nella sua immobile evidenza un luogo dell’anima, della trasfigurazione esistenziale, atemporale, mitica. In questo senso sintomatico diventa in particolare il piccolo centro di Caulonia, alle porte del quale si svolge la sequenza più celebre, ricca di piani prolungati e molto elaborati (con un retaggio storico-concettuale che va da Max Ophuls e Vincente Minnelli a Miklós Jancsó e Theo Angelopoulos, senza contare naturalmente il primo Michelangelo di questo gioco di corsi e ricorsi: Antonioni), di Le quattro volte. Una sequenza, come è noto, strutturata con estrema attenzione e rigore ai limiti del virtuosismo, che secondo un codice perfettamente recepibile dallo spettatore offre a intervalli regolari in campo lunghissimo il teatro dell’azione principale in cui una processione religiosa interagisce con un piccolo incidente che consente all’intero gregge di capre di sparpagliarsi nel borgo: a partire da Porta Sant’Antonio, all’ingresso di Caulonia superiore, la macchina da presa con un movimento panoramico sposta l’attenzione verso l’esterno, per poi tornare al punto di partenza dove tutto si compie. L’elenco dei riferimenti potrebbe proseguire, in ordine sparso, con Andrej Tarkovskij ed Ermanno Olmi. O, per ammissione di Frammartino con «Robert Bresson, Béla Tarr e Tsai Ming Liang, Lisandro Alonso o ancora Michel Snow. Devo inoltre molto al Gruppo “Studio Azzurro” di Milano per quanto riguarda l’esperienza delle istallazioni di video-arte». (1) Un elenco senz’altro approssimativo per difetto, cui ci permettiamo di aggiungere anche Franco Piavoli.

Il passo successivo di questo rapido excursus imporrebbe a rigor di logica di tentare di decifrare un percorso d’autore di Frammartino, per quanto egli stesso, non sentendosi a suo dire “pronto”, abbia declinato l’invito a concedere un’intervista che servisse da supporto e da spunto a questo nostro tentativo. Del resto non è un caso che, nonostante la sua filmografia non sia quantitativamente cospicua – comprendente a tutt’oggi due lungometraggi molto importanti come appunto Il dono e Le quattro volte (2) – si possa legittimamente parlare di consapevole e dichiarata idea di cinema. Non foss’altro perché è proprio Frammartino, infatti, in una delle quattro interviste finora concesse (3) a parlarne, senza remore né pudore: «Il mio cinema è un cinema che parte dai luoghi e dai corpi: sto lì guardo, fotografo, mi documento, non parto dalla pagina insomma. In realtà il mio materiale di base è il disegno tant’è che sto iniziando a fare un film di animazione su un ragazzino che cresce durante il periodo del cosiddetto riflusso. Di solito per me la scrittura è semplicemente uno strumento che deve aiutare i produttori a trovare delle risorse. Questa volta, vista la complessità del progetto composto di quattro film intrecciati [Le quattro volte] lo sforzo della scrittura mi ha aiutato – devo ammettere – a coordinare un po’ le cose. Io tendo a disegnare moltissimo, a fotografare, a fare delle riprese, delle animazioni e ad utilizzare la scrittura solo in fase finale; questo è il mio percorso abituale». (4)

C’è dunque un mondo, principalmente di immagini e soluzioni estetiche ricercate che confutano l’impressione documentaristica iniziale ed epidermica dei suoi film: «A mio parere è il linguaggio dell’immagine la vera questione. È il tipo di inquadratura, la sua durata, la relazione tra le stesse immagini a tratteggiare le sfumature dei significati in un unico prodotto dirompente che quasi sfiora il limite del film di denuncia. A volte in una pellicola che tratta argomenti apparentemente banali come delle caprette è proprio il linguaggio a sottolineare il contenuto profondo attraverso la forma. Ho la sensazione che il cinema italiano, specialmente di sinistra, abbia toccato temi veramente cruciali per la nostra società ma con un linguaggio molto omologato, simile un po’ a una “Penelope cinematografica”, tessendo di giorno e scucendo di notte il lavoro fatto. La vera partita ce la si gioca sul piano del linguaggio e dell’estetica». (5) Insomma, il suo è un mondo cinematografico, in cui convergono precise scelte stilistiche. La sua visione del mondo coincide inevitabilmente con una visione del cinema o in senso lato della rappresentazione audiovisiva. Frammartino sa esattamente cosa fa e cosa vuole ottenere, e sa di cosa parla quando parla del suo cinema, a differenza di quanti ne enunciano spesso impropriamente i pilastri, cioè prima ancora di averne calibrato le risorse e magari testato la capacità di resistere alle tentazioni di un mercato omologante. L’autore de Il dono e Le quattro volte è invece fin troppo maturo, concreto. Medita a lungo ogni progetto, procede con circospezione, tanto da non compiere a ragion veduta passi falsi. Indubbiamente la sua propensione a confrontarsi con la realtà, una realtà arcaica, ciclica, soggetta a leggi fisiche e naturali, persino animistica («La polvere è un elemento che mi interessa: è il primo grado del visibile e questo film è anche un film sull’anima o meglio su quell’invisibile che c’è nei corpi ma soprattutto nell’immagine. Nella mia vita concreta non sono mai riuscito a credere all’invisibile, ma nell’arte è diverso») (6), sembrerebbe collocarlo in un solco preciso, italiano, ipotecato già da prima dell’immediato secondo dopoguerra, dal realismo. Ossia da un dover essere estetico ed ideologico di volta in volta proto-neorealista, neorealista, post-neorealista, realista, neo-neorealista, tipico di molti registi di ieri, di oggi, e crediamo anche di domani. Una tradizione che si perpetua e agisce, al di là di singole scelte e di precisi, inconfondibili orientamenti, come un fantasma che reclama un principio forte di realtà. Molti autori italiani sembrerebbero da questo realismo ancora oggi essere agiti, per usare un’espressione grammaticalmente non corretta, ma molto cara agli antropologi, per restare in argomento. Un realismo multiforme cui è capitato a molti di aderire, o con uguale impiego di energia di opporsi, scegliendo appunto una chiave anti-realistica o irridente dei cliché del (neo)realismo diuturno, costringente. Ma affermare o negarne l’effetto sullo schermo, senza soluzioni di continuità, non fa che confermare la regola di un cinema della realtà, comunque lo si voglia definire o situare storicamente, culturalmente e politicamente. La componente a prima vista assai marcata in senso realistico anche dei lungometraggi di Frammartino trova peraltro conferma nella inequivocabile ambientazione rurale calabrese, lontana dalla città e da una modernità non contraddetta, ma deliberatamente ignorata e perciò accantonata, estromessa come un oggetto improprio quale ad esempio una fotografia pornografica o un cellulare (Il dono). Donde l’origine dei tempi prolungati dell’inquadratura, della predilezione per la fissità, che diventa fissazione d’autore, temperati all’occorrenza dall’uso estremamente cauto e mirato degli eventuali movimenti di macchina (che costituiscono la principale soluzione di continuità da Il dono a Le quattro volte). Stilemi, insomma, adottati in funzione anti-realistica, straniante, che provvedono a sottolineare una distanza o indifferenza precisa, ma non per questo critica o polemica, rispetto specialmente ai modi di produzione contemporanei, alla manipolazione fisiologica dell’inquadratura consentita dal cinema digitale oramai istituzionalizzato. Curiosamente, i film di Frammartino che mostrano non tanto la povertà quanto l’operosa e sistematica “frugalità” (cosa per l’appunto ben diversa, e che oltretutto concerne una prospettiva, non una retrospettiva, nella direzione della «decrescita serena», «sostenibile», addirittura «felice» (7) contrapposta a un orizzonte sempre più in crisi e limitato di crescita insostenibile, per non dire catastrofica), non inseguono il miraggio del presunto basso costo della tecnologia e del supporto digitale. Proprio perché scelgono di essere essi stessi opere materiche, oggetti concreti, tangibili, contrassegnati dalla risoluzione e dalla fisicità della pellicola tradizionale, deperibile, soggetta alla legge del tempo e alle condizioni dello spazio come i suoi personaggi, umani, animali, vegetali, minerali che pitagoricamente si avvicendano e ricongiungono infine in Le quattro volte: «Per quanto riguarda il materiale utilizzato, io ho l’ossessione della scelta del supporto. Essendo architetto di formazione so bene che costruendo con il legno o col mattone, per esempio, i risultati sono completamente diversi. Per me il video analogico è molto diverso dal video digitale, dal numerico e dalla pellicola. Mi hanno invitato a fare l’anteprima del film sul web; non è che io mi opponga in assoluto a questo tipo di operazione, anche perché capisco il punto di vista dei produttori che hanno investito su un film fatto con delle capre, sono stati coraggiosi e quindi non voglio contrastarli, però penso che i film siano pensati per il grande schermo. La scelta del supporto per me non è una scelta dettata da considerazioni economiche. Nel periodo del Dogma si diceva che il digitale era la democrazia; per me questa è una sciocchezza. Mi è capitato di fare dei lunghi con 5.000 euro; il risparmio non sta nell’uso della pellicola. La pellicola cattura la lingua muta della materia, crea un rapporto tattile con le cose. Su Le quattro volte ho difeso questa scelta fino in fondo perché la pellicola è come un calco del reale; questo rapporto di “contagio” col reale era importante per me. Detto questo io adoro il video e ci lavoro con le installazioni ma è un tipo di strumento diverso. Bisogna capire che il video non è un surrogato della pellicola. La pellicola è tutt’altra cosa ed è proprio per questo che bisognerebbe conservarla. Purtroppo temo che non sia così. In laboratorio ti fanno la guerra per non lasciarti finalizzare in pellicola, cercano di convincerti con vari argomenti: “Digitalizziamola – ti dicono – che poi possiamo lavorare meglio sui colori, abbiamo più libertà, non se ne accorge nessuno!”. Ti fanno perfino dei test per provarti che non te ne accorgi, tentano in tutti i modi di farti accettare la digitalizzazione anche perché non hanno più personale sufficiente per le lavorazioni. La pellicola scomparirà per il semplice motivo che non c’è più il personale per trattarla». (8)

Non è pensabile, né facilmente ipotizzabile, che il cinema di Frammartino possa d’ora in avanti essere percepito come un oggetto uguale a se stesso, sempre e comunque. Né che possa trasformarsi in maniera poetica. Poiché la Calabria che ha portato sullo schermo, sottoposta a un trattamento visivo, sonoro e (a)temporale, non è lo specchio di una denuncia sociale o politica, con accenti miratamente meridionalisti, pure rintracciabile nei documentari «demartiniani» di Cecilia Mangini, Luigi Di Gianni, Giuseppe Ferrara, Gianfranco Mingozzi (ulteriori referenti cui riallacciare, per ora, la filmografia di Frammartino). Bensì, ci sembra piuttosto, un autentico, in tutti i sensi, terreno sperimentale, di messa in scena e in quadro rigidissime attraverso cui alienarsi dal presente o cercare di rileggerlo in una chiave decentrata, obbedendo a una spinta (d’autore) deliberatamente centrifuga. Necessario, fin qui, a marcare una differenza che accomuna, anche nell’inappropriata classificazione di “documentarista”, l’iter di Michelangelo Frammartino semmai a quello di Pietro Marcello. E che ad ogni modo fa persino della Calabria, così precisa, così centrata, così centrale, una realtà utilizzata, rivisitata e riscritta dal linguaggio audiovisivo. «È indubbio che linguaggio e spazio siano due elementi destinati a condizionarsi reciprocamente. Lo dico anche in virtù del fatto che da architetto trovo questo rapporto molto interessante. Va detto che ormai da alcuni anni sto lavorando sulla fissità della camera e sui campi lunghi, insomma su un certo modo di riprendere la realtà. Il mio precedente lavoro sulla periferia milanese ha un linguaggio cinematografico sostanzialmente comune a quello de Il dono. Certo, a Caulonia questo tipo di linguaggio ha trovato un equilibrio particolare con il luogo, con gli spazi. Come se tornare nei luoghi della mia infanzia avesse riportato alla luce qualcosa di inconscio, un’origine che non riconoscevo dei miei interessi. Per fare un esempio concreto, mi interessava realizzare un film dove il confine tra interno e esterno non fosse così visibile, anzi tendesse a dissolversi. E’ uno dei miei temi ricorrenti. E Caulonia è un luogo dove, appunto, questo confine tende a sparire, il dentro si confonde con il fuori. Se a Milano la casa è uno spazio chiuso e separato dalla città, a Caulonia le abitazioni non sono un corpo estraneo. Penso a quando ero piccolo e vedevo il pastore che portava la capra dentro la casa, eliminando ogni sorta di barriera tra l’esterno e l’interno». (9)

La Calabria come metafora, ergo il Sud, non soltanto italiano, assurge a tappa cosciente di un discorso nel contempo calcolato e incalcolabile, di necessità in perpetuo divenire, tipico di un autore imprevedibile, sì, ma inequivocabilmente solitario. Solitario per vocazione ostinata, testarda, rivendicata, quantunque confortata da riconoscimenti pubblici e da platee festivaliere o d’essai. Solitario e perciò intento a riflettersi nella solitudine dei suoi stessi personaggi silenziosi, spesso, fisiologicamente anziani. Tale rappresentazione, che ha privilegiato nei lungometraggi gli «interminati spazi e i sovrumani silenzi» di leopardiana memoria, calati in una dimensione esterna/interna/interiore occasionalmente eppure così esattamente calabrese, si traduce in segreta autorappresentazione. E inseguimento perpetuo di un altrove mitico e mistico, regressivo e progressivo. Unica via di scampo all’omologazione, d’autore, nel cinema italiano contemporaneo. Da un Michelangelo all’altro.


di AntonGiulio Mancino
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