La zuppa del demonio. Un film di Davide Ferrario

“La zuppa del demonio” è il termine usato da Dino Buzzati per descrivere le lavorazioni nell’altoforno in un documentario industriale del 1964, Il pianeta acciaio.

Ottimismo, pessimismo…categorie vaghe, dicotomie futili, buone solo ad alimentare incomprensioni. In quella sua nuova, grande lezione sulla storia italiana in cui attraversa da par suo il cinema il teatro la poesia e che è Il giovane favoloso, Mario Martone fa dire più o meno questo, e con sarcasmo, al suo ormai maturo e disincantato Leopardi. Per di più, Venezia 71 oltre Leopardi ricorda, con Abel Ferrara, anche Pasolini, dunque due artisti corsari e diversi che a distanza di oltre un secolo tra loro posero con forza (anche) il tema del rapporto storia/natura. Appare dunque assai appropriato che, fuori concorso, venga presentato in questa edizione La zuppa del demonio (così Dino Buzzati ebbe a definire, 50 anni fa, il lavoro negli altiforni), racconto visivo, ma anche letterario, del lavoro industriale italiano sin dagli inizi del secolo scorso (il secolo del cinema), ma anche riflessione sull’idea stessa di progresso nel nostro Paese. L’operazione ha visto la bella sinergia tra il regista torinese Davide Ferrario (che tre anni fa con Piazza Garibaldi aveva compiuto un intenso viaggio da Nord a Sud, per scoprire cosa fosse rimasto dell’idea di nazione), Rai Cinema e Archivio Nazionale del Cinema d’Impresa-CSC di Ivrea (il film nasce infatti da una idea del suo direttore, il critico e storico del cinema Sergio Toffetti) e Microcinema che distribuisce il film dall’11 settembre.

Ma oltre che nelle sale noi ci auguriamo che La zuppa del demonio (al pari dei materiali dell’Archivio di Ivrea, disponibili comunque da gennaio 2014 su Youtube al portale on line “Cineimpresa TV”) possa essere visto e dibattuto in tanti altri luoghi di aggregazione sociale, in primo luogo le scuole e le aziende. Duplice è infatti a nostro giudizio la vocazione del film: aiutarci a capire – docenti educatori studenti, ma anche manager impiegati, operai – perché è finita così; ma anche, e forse in prima istanza, recuperare la memoria del lavoro degli uomini e delle donne – delle loro facce e delle loro mani. “I volti e le mani” era del resto il titolo di un prezioso volumetto, curato da Benedetta Tobagi, allegato a “Gli anni Edison”, cofanetto DVD dei corti industriali di Ermanno Olmi; lo stesso Olmi ebbe a dire, già tempo fa, lucidamente: “Se guardiamo le facce dei lavoratori della Edison, sono facce da operai perché li vediamo in un cantiere, se le pensiamo in un campo sono facce da contadini, non cambia nulla: era il popolo italiano…Oggi hanno tutti facce da merendine”.

In effetti, il richiamo di Olmi ci fa capire che La zuppa del demonio, nel ripercorrere le tappe fondamentali dello sviluppo in Italia (il ferro e poi l’acciaio, il motore e l’elettricità, la chimica, il petrolio, il nucleare), racconta la storia più profonda delle trasformazioni antropologiche, culturali, prima ancora che sociali ed economiche del nostro paese. Una storia fatta di buona sebbene per lo più cieca fede nel progresso, ma anche dell’orgoglio del lavoro e del suo “senso”, e di speranza in un riscatto possibile. Una storia costellata da utopie (si pensi in primo luogo a quella per molto tempo anche realizzata, ma pure assai ostacolata, dell’Olivetti), errori madornali e terribili  (si pensi alla Sicilia povera e agricola che diventa quasi da un giorno all’altro polo chimico anziché… turistico; e, s’intende, alla devastazione ambientale che scontiamo sulla nostra pelle), e alle tante occasioni perdute, che hanno portato fatalmente a quella che Ermanno Rea chiamò la “dismissione” (già nel suo bel romanzo del 2002, ambientato all’Italsider di Bagnoli e che ispirò poi Gianni Amelio per La stella che non c’è, 2006). Eppure, come lo stesso Rea dice nel film, per un breve momento storico, anche al Sud “credevamo qualcosa, credevamo nella fabbrica”, che introduceva a Napoli “valori inusuali…l’etica del lavoro, il senso della legalità”.

Dalle puntuali ricerche d’archivio di Elena Testa (sin dai celebri primi filmati, virati in seppia, di Luca Comerio alla FIAT), Ferrario (con il sapiente lavoro di montaggio di Cristina Sardo) non manipola (come purtroppo accade nel caso di Italy in a day di Salvatores), il materiale originario, ma ne rispetta la “destinazione d’uso” (siano esse ragioni di comunicazione esterna o di formazione interna del personale). Crea però, col montaggio appunto, una narrazione autonoma e coerente con le sue premesse, affidando poi, insieme allo sceneggiatore Giorgio Mastrorocco, un controcanto ironico o satirico alle parole, spesso profetiche, di tanti grandi scrittori e intellettuali italiani che intessono la trama del racconto visivo e la illuminano ancor più nitidamente (il loro elenco, assai lungo, comprende nomi come Marinetti, Gadda, Buzzati, Parise, Bianciardi, Bocca, Ottieri, Rea, Primo Levi, Volponi, Calvino).

Purtroppo, in questi ultimi anni, abbiamo dismesso ancora tanto, dalla grande industria ai piccoli distretti. Ma abbiamo dismesso anche molti simboli e valori culturali che, a partire dal lavoro, hanno accompagnato e modellato la nostra storia, anche nei suoi momenti più bui. Purtroppo, scrittori e intellettuali da molto sono pressochè silenti su questi temi. Forse le immagini di quel cinema industriale e di questo film possono aiutarci a ritrovare insieme la strada per uscire da questa lunga “nuttata”.


di Sergio Di Giorgi
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