La vita e l’illusione: il cinema di Eric Rohmer
Come ha sapientemente spiegato Jacques Vassalle alla Mostra del Cinema di Venezia, in occasione della tavola rotonda per la presentazione di La nobildonna e il duca, l’intera opera cinematografica di Eric Rohmer è caratterizzata da un’idea di fondo di tipo teatrale: si accede alla vita tramite l’illusione. In altri termini, l’artificio è la condizione per l’accesso alla verità.
Trasposto sul piano stilistico, questo concetto significa che la verità viene dalla messa in scena e non dal montaggio. Lo stesso Rohmer, in proposito, ha affermato di essere fedele all’insegnamento di Bazin sulla profondità di campo e il piano-sequenza. Insomma, ricorrere ad un artificio estremamente visibile permette, talora, di conseguire una maggiore verità. E’ proprio questo il criterio seguito dal regista francese nel rappresentare, nel suo ultimo lavoro, la città di Parigi ai tempi della Rivoluzione.
Pur scegliendo di raccontare il momento più sanguinoso della storia francese, Rohmer sembra interessato, non tanto alle vicende della giovane inglese realista residente in Francia e al suo tormentato rapporto con il duca d’Orléans, quanto all’accuratezza e all’eleganza della ricostruzione. In definitiva, lo spettatore è colpito non dalla storia in sé, ma dagli otto interni (l’appartamento di Grace, il palazzo reale, la prigione, il tribunale, ecc.) e dalle trentasette scenografie in cui sono, successivamente, inseriti i personaggi e le loro azioni. Lo spirito che anima quest’opera è esemplificato dalla dichiarazione dello stesso regista relativa all’importanza della verosimiglianza. Parlando della sequenza in cui la domestica descrive quello che vede alla nobildonna inglese, Rohmer ha rivelato di essersi chiesto se si poteva osservare davvero, all’epoca, dal ponte, Piazza Luigi XV, attuale Place de la Concorde. Ha, poi, aggiunto di essersi dato una risposta affermativa, ricordando che in “Notre coeur” di Maupassant due personaggi si danno appuntamento proprio in quel determinato punto e vedono il paesaggio descritto nel film.
Un grande rigore filologico ed estetico è, allora, alla base di quest’opera realizzata con determinazione e precisione da Rohmer e dalla sua troupe abituale (Diane Baratier all’immagine, Pascal Ribier al suono).
Il risultato finale, a dispetto delle affermazioni dell’autore (“Difetti se ne trovano sempre, ma io non cerco la perfezione”), è quello di un film formalmente perfetto, ma freddo, lontano, un po’ snob. Proprio come è apparso Rohmer, a Venezia, al suo pubblico.
di Mariella Cruciani