La scomparsa di Valentino Orsini
Valentino Orsini, morto improvvisamente all’età di 75 anni, era una figura tanto singolare quanto anomala nel panorama del cinema italiano.
Dopo una breve attività come critico e organizzatore di cineclub, e dopo alcune esperienze documentaristiche, esordisce, nel 1962, nel film narrativo dirigendo, assieme a Paolo e Vittorio Taviani, Un uomo da bruciare. Quest’opera rivela subito, nei tre autori, talento registico, impegno civile, originalità espressiva. Un uomo da bruciare, che rievoca l’assassinio del sindacalista siciliano Salvatore Carnevale da parte della mafia, sia per il tema prescelto, sia, soprattutto, per i modi della trattazione, fa parte di quel ristretto numero di film italiani che hanno partecipato, attivamente, creativamente, al movimento del “nuovo cinema”, movimento che proprio in quegli anni si stava affermando in campo internazionale.
I nomi di Orsini e dei Taviani si affiancano subito a quelli di Pasolini, di Bertolucci, di Ferreri, di Olmi, di Bellocchio, i quali sono, appunto, i maggiori rappresentanti italiani di quel variegato movimento che, all’inizio degli anni Sessanta, ebbe nella “Nouvelle vague” francese e nel “Cinema novo” brasiliano gli esempi più validi e probanti quanto a capacità di innovazione linguistica, forza referenziale, lavoro di gruppo. Ancora con i fratelli Taviani, Orsini gira I fuorilegge del matrimonio (1963), un film a episodi, volto prioritariamente a sostenere la causa divorzistica (allora molto osteggiata in Italia), in cui comunque non sono assenti le sperimentazioni espressive.
Dopo aver amichevolmente interrotto il sodalizio con i Taviani, Orsini dirige, nel 1969, il suo film più ambizioso e personale, I dannati della terra, che già nel titolo, ripreso dal famoso libro di Franz Fanon, manifesta, insieme, l’inclinazione terzomondista e la militanza politica. Ma il valore del film, più ancora che nelle tesi sostenute, è da ricercare nell’uso molto libero, molto avanzato, del linguaggio cinematografico, che conferma la giusta tendenza, sempre avvertibile nei migliori risultati del cinema di Orsini, a coniugare passione ideologica e ricerca stilistica. Corbari (1970), ritratto di un partigiano estremista, individualista, anarchico, insomma fuori dagli schemi, e L’amante dell’Orsa Maggiore, tratto dall’omonimo romanzo del polacco Sergiusz Piasecki, sono i film successivi che sembrano cercare, almeno nelle soluzioni formali, non più la provocazione, bensì il dialogo con il pubblico (con un certo pubblico). Dialogo che non si verifica, e il loro insuccesso commerciale costringe Orsini a un lungo periodo di inattività, interrotta solo nel 1980 da Uomini e no, una corretta versione filmica dell’omonimo romanzo di Elio Vittorini, che consente al regista di riprendere una tematica a lui particolarmente cara, la tematica della Resistenza intesa e come avvenimento storico e come posizione morale (lo stesso Orsini, d’altronde, aveva partecipato, giovanissimo, alla Resistenza).
Quindi un’altra lunga pausa di cinque anni prima di arrivare al suo ultimo film, Figlio mio infinitamente caro…(1985), che avrebbe potuto rappresentare una svolta nella sua filmografia. Quest’opera, infatti, affronta in chiave sentimentale il dramma sociale della droga, raccontando l’amore di un padre che cerca di salvare il figlio dalla tossicodipendenza. Nonostante alcuni squilibri narrativi, il film riesce a coinvolgere e a commuovere. Ma ancora una volta il suo insuccesso commerciale interrompe, e questa volta definitivamente, l’attività cinematografica di Orsini, costretto per più di quindici anni a un doloroso allontanamento dal mondo del cinema, solo in parte compensato dall’insegnamento di regia al Centro Sperimentale di Cinematografia.
La coerenza intellettuale, la non compromissione con l’esistente ideologicamente ed eticamente rifiutato, il gusto per un cinema non allineato costituiscono la lezione che i film di Orsini e il suo vissuto di cineasta lasciano al cinema italiano. Che, invece, non può più rimediare ai torti accumulati verso questo suo regista troppo presto abbandonato a se stesso.
di Bruno Torri