La scomparsa di Elia Kazan
“Un’opera d’arte non deve insegnare. Dev’essere come una montagna, un albero, una nuvola. Come i fenomeni naturali deve dare impressioni differenti a quelli che ne so-no testimoni”.
Così parlò Elia Kazan, al secolo Elia Kazanjioglou, nato il 7 settembre 1909 a Kadi Keu, periferia di Istanbul, morto il 29 settembre 2003 a New York, centro dell’Occidente. La sua vita e il suo lavoro furono contraddittori, come dimostrano i seguenti fermo-immagine. 1934: il Group Theatre di New York, le idee progressiste, la stesura di una pièce antifascista, l’iscrizione al partito comunista americano. 1947: la fondazione dell’Actor’s Studio, il metodo di recitazione di Stanislavskij rilanciato come metodo per antonomasia, passaggio obbligato per ogni attore che desideri radi-care la sua performance nel proprio vissuto, trasformando la recitazione in fenomeno naturale, sfaccettato come la vita, vitale come Marlon Brando in Un tram che si chiama desiderio, regia di Kazan a teatro nello stesso 1947, al cinema nel 1951. 1952: la famigerata denuncia da parte del regista alla Commissione Attività Antiamericane di 16 suoi ex-compagni di partito, dal quale era fuoriuscito, e fra que-sti di Arthur Miller di cui aveva diretto Morte di un commesso viaggiatore. 1954: O-scar alla miglior regia per Fronte del porto, un film-persona, fedele alla fisi-cità e contraddizioni interiori del protagonista, Brando, come avverrà per James Dean de La valle dell’Eden, 1955, per Carrol Baker di Baby Doll, 1956, per Warren Beatty di Splendore nell’erba, 1961, per finire col Robert De Ni-ro de Gli ultimi fuochi, 1976, dal romanzo di Fitzgerald sceneggiato da Ha-rold Pinter. 1999: ultimo fuoco, Oscar alla carriera, metà sala s’alza ad applaudire e metà sta seduta a braccia conserte, non perdonandogli il tradimento mai abiurato. Ka-zan, figura divisa in due: fedele osservatore di contrasti umani, prima ancora che so-ciali; traditore che non osserva neppure patti d’amicizia, poi tira dritto per la carrie-ra.
La visione del reale non contiene la verità – è ciò che insegna, malgré lui, il suo ci-nema non-didattico – bensì le verità, in drammatica ambivalenza. Si torni a una scena di Fronte del porto. Un guanto di Eva Marie Saint cade a terra, Brando lo af-ferra. La minuzia diviene specchio fedele di ciò che il protagonista sta provando per la ragazza. Il desiderio di interessarsi a lei, possederla, poi distanziarsene, stuzzicarla. Allo stesso modo le dita del guanto sono raddrizzate, il guanto è indossato, Brando ne pizzica i piccoli peli, così via. «Il personaggio centrale d’un film» – aveva dichiarato – «è toccato dai problemi morali dell’opera. Non deve dominarli né esserne scentrato. Infatti è lui il problema: la contraddizione interna deve esistere in lui». Muore Kazan, contraddizione imperitura.
di Gabriele Barrera