La principessa, la strega e la mela secondo Tarsem

Sarà forse per sfuggire all’ombra cupa di questi tempi che il cinema sembra, ultimamente, riscoprire (e reinterpretare) le favole più classiche. Anche se le fiabe in celluloide fanno parte della storia più antica della settima arte, di recente pare siano diventate una “nuova” fonte di ispirazione per registi e sceneggiatori che, ciascuno a suo modo, rivisitano, rielaborandolo, l’immaginario fiabesco. Se Tim Burton, nel 2010, ha portato sullo schermo la sua personalissima Alice, in un Paese delle Meraviglie sottilmente lisergico, Tarsem Singh (The Cell – La cellula, The Fall, Immortals) rivisita Biancaneve scomponendo gli elementi della celebre favola in un quadro tanto sfavillante e sontuoso, quanto ironico e dissacrante.
Al languore romantico della Principessa, bella e buona, vittima del crudele sortilegio della matrigna ,sostituisce il piglio disobbediente di una ragazza che proprio non ci sta a farsi soffiare il regno (e il possibile) fidanzato dall’infingarda moglie del defunto padre e che non esista ad allearsi con gli outsider del bosco (i sette nani) per riappropriarsi (a colpi di bastonate) del maltolto. La tenera eroina, tanto cara ai nostri ricordi d’infanzia, diventa qui una sorta di guerriera che, pur rimandendo fedele al modello di donzella fascinosa e dall’animo gentile, è in grado, non solo di imbracciar le armi ma di avere la meglio anche sull’ormai obsoleta audacia del Principe (salvatore?), dimostrando che sa far da sè, e meglio.
Nel favoloso mondo di Tarsem i personaggi si muovono su uno sfondo, sì fastoso, ma meravigliosamente posticcio. La scenografia – variopinta e lussuosa – sottolinea l’iperbole di una visionarietà che non nasconde la sua luce artificiale quasi ad aspettarsi di veder spuntare qualcuna delle maestranze dietro i praticabili usati per la messa in scena. Perché di ciò, fondamentalmente, si tratta: di uno spettacolo dell’eccesso e dell’artificio, di un gioco divertente (e divertito) dell’alterazione del conosciuto.
Il regista indiano manipola gli stilemi della favola di Biancaneve e ne muta i contorni. Il suo non è un processo sottilmente priscologico, né un raffinato processo di trasmutazione del testo ma una manipolazione squisitamente visiva (e visionaria) della fiaba tradizionale. Una sorta di anti-Burton in cui l’illusione si fa alterazione della visione e la narrazione rimescola le carte dell’immaginario popolare reinterpretandolo in un racconto fittizio dall’artificio palesemente scoperto.
Nel “disordinare” la favola, Tarsem ne ridisegna anche i famosissimi personaggi e se i sette nani sono una simpatica masnada di gaglioffi fuorilegge e il Principe un bel bamboccio non troppo sveglio, le due donne protagoniste non potevano che trasformarsi in tutt’altro rispetto al modello tradizionale conosciuto ai più. Il prevedibile antagonismo tra la buona e la cattiva è qui rimpiazzato da una sfida alla pari tra due caratteri femminili ugualmente forti, seppur agli antipodi. In questo nuovo paradigma, come Biancaneve si allontana dallo stereotipo della fanciulla indifesa, così la Regina malvagia prende le distanze dalla semplice perfidia del suo animo per diventare – grazie ad una Julia Roberts splendidamente autoironica – una femmina isterica che usa la crudeltà per allontanare lo spettro più terrificante della sua esistenza, ovvero quella vecchiaia che lo Specchio “delle sue brame”, simbolica nemesi di se stessa, tornerà a restituirgli nel riflesso. In tal modo la fiaba di Biancaneve si trasforma nella fiaba di Tarsem, rivisitata e corretta, dal bosco innevato fino alla celeberrima mela, “guest star” del finale che, in un’esplosione di variopinto kitsch bollywoodiano, si congeda dal pubblico con un happy end sui generis.
Nel cinema che verrà ci saranno Biancaneve e il cacciatore (di Rupert Sanders con Charlize Theron nei panni di Crimilde) e Maleficient (versione firmata da Robert Stronberg de La bella addormentata con Angelina Jolie a far da strega cattiva); ancora favole, quindi, ma del terzo millennio in cui la rassicurante atmosfera del fiabesco si altera nelle differenti versioni di una modernità che non può privarsi, nemmeno nell’universo della fantasia, di un senso di amara inquietudine. Del resto già il Bardo ebbe a dire che la vita non è che “una favola narrata da uno sciocco, piena di strepito e di furore ma senza significato alcuno”.
di Eleonora Saracino