La prima meta, un film di Enza Negroni. 57 Festival dei Popoli
Il documentario racconta di una vera squadra di rugby italiana (la “Giallo Dozza” di Bologna), nata tra le mura di un carcere e composta da circa 40 detenuti di nazionalità diverse.

Di film di finzione sul football a stelle e strisce si potrebbe compilare un lungo elenco, mentre assai più scarna è la filmografia ispirata da quel più antico e ben diverso sport che è il rugby di origine europea. Ma La prima meta, documentario su una vera squadra di rugby italiana (la “Giallo Dozza” di Bologna che milita nel campionato di C2), nata tra le mura di un carcere, composta da circa 40 detenuti di nazionalità diverse che mai avevano giocato a rugby, possiede sulla carta numerosi elementi per diventare un piccolo caso cinematografico. Staremo a vedere. Intanto, il film ha iniziato il suo cammino giovedì scorso con l’anteprima mondiale al 57mo Festival dei Popoli di Firenze, il più longevo tra I festival dedicati al documentario nel nostro paese e certamente uno tra i più importanti.
A dirigerlo (ma anche a produrlo insieme a Oltre il ponte di Giovanna Canè) è la bolognese Enza Negroni che dopo l’ esordio, nell’ormai lontano 1996, nella fiction con Jack Frusciante è uscito dal gruppo (adattamento dall’omonimo bestseller giovanile di Enrico Brizzi) ha intrapreso con decisione la strada del documentario, realizzando sin qui diversi mediometraggi – dove ha esplorando temi tra il biografico, lo storico, il sociale – e affiancando alla regia una intensa attività di formazione e promozione sullo specifico linguaggio con l’associazione DER-Documentaristi Emilia Romagna di cui è fondatrice e presidente.
La prima meta si smarca dai cliché narrativi e dall’epicità tipica del genere ‘film sportivo’: nessuna statica intervista, ma la cronaca in presa diretta delle alterne vicende, sportive e di riflesso umane, dei componenti della squadra, per indurre sin da subito nello spettatore empatia e interesse per le loro vite da detenuti, ma anche per quelle di prima e del dopo.
Coerente all’assunto è la scelta drammaturgica e stilistica a un tempo di concentrare le vicende del film in quel recinto chiuso, però mai claustrofobico, delimitato da un alto muro grigio ma da cui si scorge sempre il cielo, del campo da gioco. Alle sequenze, dure, veloci, girate sul terreno – per lo più con macchina a mano, impegno non privo di rischi fisici come ha spiegato al pubblico dopo la proiezione il direttore della fotografia e operatore Roberto Cimatti – si contrappongono le scene girate all’interno del carcere, che ritraggono per lo più momenti rituali, come le preghiere quotidiane, di intimità, di relax o pura noia, scandite dalle sonorità elettroniche di MaterElettrica, suggestive anche se un po’ insistite. Tra gli allenamenti e le partite vere (la regista e la troupe sono state circa un anno impegnate nella lavorazione), il tempo scorre comunque molto più rapido di prima per questi uomini che hanno accettato la sfida dello sport e sono entrati in una sorta di limbo: quel campo infatti confina simbolicamente e non solo con la vita pulsante e “normale” del mondo dei liberi, mentre dall’interno, dietro le sbarre, i loro campagni di carcere assistono alle partite, fanno il tifo per loro, ma certo un po’ li invidiano.
Come in ogni film dove lo sport è protagonista, si rivela decisivo il ruolo da team-builder dell’allenatore – Massimiliano Zancuoghi (per tutti Max) – colui che deve riportare questi uomini che hanno ricevuto un ideale “cartellino giallo” (che nel rugby equivale a dover restare fuori a bordo campo per alcuni minuti) a rientrare in partita attraverso l’apprendimento del rispetto per le altre persone e, che è poi lo stesso, delle regole di quella disciplina sportiva. Mettersi in gioco, ricominciare da capo, accettare i nuovi arrivati, non indietreggiare davanti alla fatica e alle sconfitte, allenarsi sotto la pioggia battente e persino provare la felicità di tuffarsi a terra nel campo ridotto a un acquitrino. Fino al’inizio del campionato ufficiale. La ricompensa, prima ancora delle vittorie (che a un certo punto arriveranno anche) è la nuova socialità che gli incontri permettono: poter vedere più spesso i familiari, ma anche godere del famoso “terzo tempo” del rugby, ovvero gli incontri conviviali a fine partita di entrambe le squadre che si sono appena combattute (una lezione che altri sport dovrebbero seguire…).Del resto, come ha spiegato a Firenze la direttrice del carcere della Dozza di Bologna questi detenuti sono i destinatari del progetto educativo “Tornare in campo”, finalizzato al reinserimento sociale ed educativo di detenuti e giovani disagiati (che come vediamo nel film devono sottoscrivere un codice etico-comportamentale che prevede meccanismi sanzionatori in casi di violazione, fino all’esclusione dalla squadra e dal progetto).
Le didascalie finali ci dicono che diversi dei detenuti che vediamo nel film sono usciti dal carcere ma hanno continuato a giocare anche dopo esser tornati nei paesi d’origine. E che molti di essi continuano (alcuni di loro sarebbero dovuti rientrare la sera stessa dell’anteprima in cella): proprio pochi giorni fa la squadra ha compiuto la sua prima trasferta, per giunta andando a vincere a Torino contro una squadra omologa (in Italia oltre la “Giallo Dozza” ci sono altre 8 squadre di rugby attive nelle carceri).
Certo, per i cinici di professione, La prima meta resterà comunque un film “buonista”. Noi speriamo comunque che venga presto distribuito in sala. E analogo augurio ci permettiamo qua di fare a un altro documentario – Ninna nanna prigioniera della torinese Rossella Schillaci – che abbiamo visto al suo esordio al Biografilm di Bologna. Pur toccando un tema sociale diverso e assai particolare come quello delle madri detenute insieme ai loro piccoli figli, entrambi i film condividono, oltre all’ambientazione carceraria, uno sguardo “orizzontale”, all’ altezza dell’ “altro”, forse più femminile, comunque pieno di umanità eppure lucidamente consapevole dei problemi che il confronto con le altre culture ci pone ogni giorno davanti, come in uno specchio rovesciato. Temi e storie che la sezione del Festival dei Popoli “Looking for Neverland” (a cura di Vittorio Iervese) ha saputo ben fotografare, e da diverse prospettive, e sulla quale torneremo più diffusamente.
Trama
Max, allenatore di rugby, seleziona tre giovani detenuti per la squadra multietnica Giallo Dozza del carcere di Bologna. Con allenamenti estenuanti riesce a trasformare le continue sconfitte delle partite, giocate sempre in casa, nella voglia di riscatto. Nel campo di gioco la vita dei giovani si trasforma e si contrappone alla solitudine e i ritmi lenti delle celle. Crescono insieme alla squadra fino alla vittoria di una partita ma una nuova sfida ancora più grande li attende.
di Sergio Di Giorgi