La memoria e l’identità. Tracce di cinema italiano a Venezia
Anche nell’edizione appena conclusa della Mostra di Venezia il cinema italiano -dislocato nelle diverse vetrine- ci ha posti dinanzi allo specchio deformato da tante contraddizioni del momento sociale e culturale che viviamo. Da prospettive e con forme diverse, tra il passato e un presente che contiene già il futuro (quello almeno immaginabile), dalla finzione al documento, a comporre un percorso nel tempo e nello spazio attorno a due parole o meglio concetti-chiave, peraltro strettamente connessi tra loro: identità e memoria. Perché è sulla memoria (individuale e collettiva), di cui il cinema è da sempre veicolo ed archivio, che si fonda in primo luogo l’identità (propriamente culturale) di un popolo. E se perdiamo la memoria, perdiamo fatalmente la nostra identità e non riusciamo più a riconoscere l’identità (e la cultura) altrui. Restano solo paura ed ignoranza, e i conflitti che ne derivano.
Il fenomeno immigrazione è oggi, come ben sappiamo, la cartina di tornasole di ogni discorso e pratica in materia di identità. Alcuni film, visti a Venezia e che sono già o saranno presto nelle sale, rappresentano dei buoni antidoti alla paura e all’ignoranza. Serviranno anche a farci tornare la memoria di “quando gli albanesi eravamo noi” (come recitava, alcuni anni fa, il sottotitolo di un interessante saggio di Gian Antonio Stella)?
Nuovimondi, tra mare e terra.
Crialese is back. Da Ellis Island e dagli immaginifici fiumi di latte dell’America (o de Lamerica, come direbbe Gianni Amelio) di fine ‘800 (ai tempi delle prime migrazioni italiane verso gli Stati Uniti), è sbarcato di nuovo in Sicilia, per parlare ancora di (e)migranti, come fa dal suo primo film (Once We Were Strangers, 1997); ma oggi, e allargando lo sguardo, anche se il Mediterraneo è molto meno vasto dell’Atlantico (come complice, in sceneggiatura, ha scelto un regista come Vittorio Moroni che ha attraversato in questi anni con grande sensibilità gli interstizi tra il documentario e la fiction).
Terraferma (in concorso, e pure premiato) inizia da una distesa di mare scuro e inquietante, così come Nuovomondo partiva da una distesa di terra aspra e pietrosa. Ma subito l’acqua diventa blu, e in soggettiva, anche lo spettatore assume lo sguardo dei pescatori di fronte al mare aperto. Il regista disegna un ideale controcampo, incrocio di sguardi lontani nello spazio e nel tempo: quelli della famiglia Mancuso di fronte alla Statua della Libertà e quelli, più stremati, affamati, assetati, ma altrettanto pieni di speranza, dei migranti di oggi -uomini, donne, bambini dalla pelle scura dinanzi a Linosa, piccolo avamposto della terra promessa, della libertà, di un nuovo inizio. I loro sogni sono speculari a quelli degli isolani (impegnati a sfuggire al loro destino di miseria), ma a Linosa, come altrove, cozzeranno tra loro. Certo poi, questi migranti sono brutti sporchi e cattivi (oltre che clandestini). Occorre rimuoverli, far finta che non esistano, o sbarazzarsene, in un modo o nell’altro.
A Crialese è stato rimproverato di aver abdicato al suo stile, e rinunciato, ad esempio, alle digressioni oniriche che intramezzavano Nuovomondo. Sì, forse quel film era esteticamente più intrigante, forse i personaggi di Terraferma risultano sin troppo “esemplari”, ma sono comunque altri, a nostro parere, i registri su cui muove il film. E la sua essenza narrativa -e stilistica- lascia ben presto da parte l’epica e il grottesco per virare su tratti realistici (quasi documentaristici). Assai reale, del resto, è lo scontro di valori di cui ci parla, uno scontro che accade, prima di tutto, a casa nostra, tra noi e dentro di noi. Crialese mette in scena questi conflitti, non certo in maniera “neutra” (la sua presa di posizione morale, prima che “politica”, è esplicita), ma dando conto delle contraddizioni che dilaniano i diversi protagonisti delle vicende narrate (compresi i rappresentanti dello Stato italiano che devono far eseguire le leggi vigenti); né azzarda previsioni, perché gli esiti di questo scontro sono davvero assai incerti (lo testimonia, con metafora assai scoperta anche il finale del film), per quanto decisivi forse dell’intero destino sociale nazionale.
La Cina, e l’Africa, sono lontane…
Abbiamo paura delle “orde” degli stranieri. Eppure sono tra di noi, li incontriamo dovunque ormai. Spesso abbozziamo, ci rifugiamo nella cortesia formale e ipocrita, pronti a diffidare, a tramare, a spettegolare, ad alimentare rancori, invidie e frustrazioni. Ma chi -se non gli italiani- vende (per necessità o convenienza) bar ed altri esercizi commerciali ai cinesi?
Con Io sono Li (“Giornate degli Autori”, nelle sale dal 23 settembre) Andrea Segre ambienta in terra veneta (dove le radici identitarie sono tra le più forti del nostro Paese) una storia semplice e oggi assai comune: Shun Li (Zhao Tao, molto brava, così come tutto il cast) è una giovane cinese che viene premiata per il suo buon lavoro nella fabbrica tessile clandestina (ma non per le mafie nostrane), dalle parti di Roma, e spedita a Chioggia a lavorare al bancone di un bar appena rilevato da cinesi. A Chioggia, incontrerà tipi diversi di italiani: brava gente e cattiva gente, e anche Bepi uno straniero, un profugo, che però vive ormai là da molti anni. Sarà l’unico che entrerà davvero in un rapporto umano con Shun Li. Perché, come Terraferma, anche questo film parla di uno scontro in atto che non riguarda da un parte l’Italia e, dall’altra, il pianeta Cina. Ma riguarda noi stessi, la nostra volontà e capacità di uscire dalle gabbie dell’identità.
Si spinge più avanti l’intenso e rigoroso esordio di Guido Lombardi (‘Settimana della Critica’) con Là-bas. Educazione criminale, ispirato alle cronache nere dell’immigrazione (quelle su cui anche Il sangue verde dello stesso Andrea Segre, sui fatti di Rosarno, ci parlava da Venezia lo scorso anno). Siamo a Castel Volturno, terre dei Casalesi, e si parla del massacro “dimostrativo” di 6 lavoratori africani innocenti compiuto dalla camorra nel settembre 2008. In questo film gli italiani, ovvero gli abitanti locali (fatta eccezione per i camorristi e, in una breve scena, per alcuni poliziotti), non si vedono proprio. Una scelta narrativa non casuale, su cui crediamo sia superfluo ogni commento. Dal film emerge invece chiaro lo scontro tra gli africani alla mercè del caporalato mafioso e gli africani complici e subagenti della camorra (quelli che tentano di “mettersi in proprio”, come la storia e il film stesso dimostrano, fanno una brutta fine…). Un conflitto, ancora una volta sui valori, assai simile a quello che divide gli isolani di Crialese…Potrebbe forse stupire in Là-bas (pensando alle testimonianze di impegno di tanti sacerdoti anche in quelle terre difficili), l’assenza totale, nel racconto, della Chiesa. Ma che la Chiesa (come istituzione) sia oggi chiamata nei fatti e nel quotidiano a prendere posizione ce lo ricorda l’ennesima parabola filmica di un maestro del nostro cinema come Ermanno Olmi, Il villaggio di cartone (a Venezia “Fuori concorso”, in sala dal 7 ottobre).
La memoria fastidiosa
“La memoria dà fastidio a chi non l’ha più” dice uno dei tanti testimoni incontrati da Davide Ferrario nel suo straordinario Piazza Garibaldi (‘Controcampo italiano’). Un documentario lucido e vibrante, che mescola le voci degli italiani di oggi e quelli di scrittori e intellettuali di ieri, un viaggio da Bergamo a Pavia, da Quarto a Marsala, e poi, risalendo Sicilia e Mezzogiorno, sino a Teano. Che pone molte domande, ben al di là delle retoriche degli anniversari, e dà anche alcune risposte illuminanti. Che occorrerebbe vedere nelle scuole, come è già accaduto per Noi credevamo di Martone. Perché abbiamo studiato male la Storia, ma l’abbiamo ricordata peggio. E la nostra memoria non l’abbiamo soltanto rimossa ma anche (e il film ce lo mostra) manipolata, corrotta, persino divelta, scalpellando via, ad esempio, le targhe delle strade intitolate all’”eroe dei due mondi”.
di Redazione