La crisi del senso nel cinema di Michelangelo Antonioni
Il recente restauro di La signora senza camelie rappresenta un’ottima occasione per ripercorrere, brevemente, l’intera attività artistica di uno degli indiscussi Maestri della storia del Cinema.
Antonioni esordisce nel lungometraggio a quasi quaranta anni, con Cronaca di un amore, un film che contiene già in sé quelle che saranno le caratteristiche dominanti di tutta la sua filmografia: l’analisi psicologica, il tema della crisi della borghesia, la struttura “gialla”.
L’interesse per la vita interiore torna, prepotente, in I vinti, tre storie sul vuoto esistenziale della gioventù europea, dopo la guerra.
Anche nelle pellicole successive, Antonioni continua a privilegiare sentimenti e stati d’animo: così, nell’episodio di Amore in città fa parlare i protagonisti di alcuni tentati suicidi per amore; La signora senza camelie è un inquieto ritratto di donna; Le amiche tratto dal romanzo di Cesare Pavese Tre donne sole, preannuncia la sconfitta del personaggio centrale di Il grido.
Con il film del 1957 si conclude una prima fase della produzione del cineasta ferrarese e ha inizio il cosiddetto ciclo degli affetti alienati.
L’avventura, La notte, L’eclisse, Il deserto rosso più che una tetralogia costituiscono una vera e propria creazione unitaria: il bisogno disperato di Claudia, Lidia, Vittoria e Giuliana, nomi diversi per una stessa donna, di riempire il baratro interno, di superare l’angoscia, con un rapporto d’amore autentico, si scontra, inesorabilmente, con la frustrazione.
Ci sono giorni in cui avere in mano una stoffa, un ago, un libro, un uomo, è la stessa cosa – afferma Vittoria in L’ECLISSE, sancendo definitivamente l’incomunicabilità tra i due sessi.
La ricerca di Antonioni non si esaurisce, però, qui: la crisi del senso non investe solo i sentimenti ma, persino, i fatti e l’identità individuale, come dimostrano le vicende del fotografo di Blow up, che crede di vedere e non vede, e del giornalista di Professione reporter che, prima dello scambio, una volta, era un altro.
Tra i due film sopracitati si colloca Zabriskie point, con la famosa sequenza dell’esplosione dei simboli del benessere, girata al rallentatore con 17 macchine da presa, su musica dei Pink Floyd.
Il regista porta a compimento, in questo modo, la critica, presente in tutti i suoi lavori, ad un certo tipo di società e di modello di sviluppo: si pensi al mondo della Borsa in L’eclisse o al paesaggio industriale di Il deserto rosso.
Se per il film del 1964, volendo rendere le tonalità dell’angoscia, Antonioni vernicia antinaturalisticamente oggetti e ambienti, con Il mistero di Oberwald compie un ulteriore passo in avanti e sostituisce la vernice con l’elettronica.
Girando, per primo, con la telecamera, l’artista sperimenta, infatti, le possibilità di un modo nuovo di fare cinema: non certo per ottenere risultati da “special effects”, alla Coppola, ma per arricchire ulteriormente la struttura epifanica delle sue opere.
Anche se nessun blow-up consente di cogliere davvero gli avvenimenti e nonostante i misteri del sole sembrino a Niccolò diIdentificazione di una donna più abbordabili rispetto a quelli relativi alla natura umana, Antonioni continua caparbiamente a guardare, come dichiara il titolo del suo ultimo film, Al di là delle nuvole, ossessionato dalla vera immagine di quella realtà assoluta, misteriosa che nessuno vedrà mai. Fino alla scomposizione di qualsiasi immagine, di qualsiasi realtà.
Quando il cinema, come in questo caso, diventa tutt’uno con la sofferta ricerca del significato dell’esistenza, non può essere che grande arte.
di Mariella Cruciani