La città-porto del documentario. La 25ma edizione del FID di Marsiglia.
Giunto al traguardo dei suoi primi 25 anni, dal 2002 sotto la salda guida di Jean-Pierre Rehm, il FID- Festival Internazionale del Documentario di Marsiglia appena concluso si conferma come appuntamento referenziale per gli sviluppi del cinema documentario in Europa, e non solo. Una forma espressiva e narrativa, come si sa, in continuo e mutevole divenire, che oggi riflette e discute non tanto sui confini (ormai assai sbiaditi quando non del tutto cancellati) con il cinema “di finzione”. La riflessione riguarda infatti la visione stessa – insieme etica ed estetica – del fare e soprattutto dell’essere documentaristi, del come e del perché usare un linguaggio che se da una parte cerca strade autonome e innovative, dall’altra viene investito, nell’era dei social media, di responsabilità nuove, come colmare la progressiva perdita di memoria collettiva o sopperire alla crisi del giornalismo d’inchiesta che non sa o non vuole più indagare sulle “materie oscure” (il riferimento, tutt’altro che casuale rispetto al nostro Paese, è al recente lavoro di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti).
Senza rinunciare al ritmo rilassato e al tono informale tipici della città e dei suoi abitanti e a una programmazione che occupa diverse sale e venues cittadine (in virtù di una fittissima rete di collaborazioni ed alleanze, istituzionali e non), da quest’anno il FID ha scelto come suo quartier generale il nuovo polo museale nato per Marsiglia capitale europea 2013. Ha così potuto sfruttare sino in fondo, anche su un piano metaforico, il rinnovato skyline del vieux port, dalle passerelle gettate senza esitazione tra passato e futuro del MuCEM di Rudy Ricciotti agli ampi ponti-nave e ai tortuosi percorsi nella stiva della Villa Méditerranée di Stefano Boeri: in entrambi i casi a incontrarsi sono differenti culture e generazioni di pubblico, di artisti, ma anche di curatori e programmatori di Festival o di loro sezioni.
Questi ultimi si sono dati appuntamento in un interessante panel dei Festival che vedeva accanto realtà assai diverse, per dimensione e vocazione, più o meno specialistica: dall’autonomo “Forum” del Festival di Berlino ai Rencontres di Montréal, dalla sezione “Panorama” sempre della Berlinale al Jihlava Festival, da Visions du Réel di Nyon al Free Zone di Belgrado, sino a ben due festival portoghesi, l’ormai consolidato Doc Lisboa e il nascente Porto PostDoc. Per l’Italia c’erano Davide Oberto, che a Torino cura TFFdoc e ‘italiana corti’ (in questi ultimi anni il documentario ha dato voce al coté meno istituzionale e più aperto a voci esterne del grande festival torinese; così, ad esempio, per la prossima edizione, Oberto ha annunciato un focus sullo stato della democrazia con l’intervento di studiosi e artisti di varie discipline) e Silvio Grasselli del Festival dei Popoli di Firenze, forse la manifestazione di settore più longeva con le sue 54 edizioni all’attivo ma che solo da pochissimo ha inaugurato una sua sezione industry; italiana era anche Eva Sangiorgi che però vive da tempo a Mexico City dove da 4 anni cura il FICUNAM, giovane festival sostenuto dall’Università che spazia tra diversi linguaggi, oltre che tra documentario e fiction.
Tra le domande e i temi – certo diversi, ma ricorrenti nelle analisi del panel – segnaliamo: il ruolo politico del cinema documentario e i contributi esterni, quali le “urgenze” oggi dei documentaristi, come fare ricerca e selezione delle opere guardando al tempo stesso alla forma e al contenuto; ma anche questioni più tecniche, come l’emergere dei “formati ibridi” (non solo tra documento e finzione, ma anche tra forme, formati e linguaggi diversi) o l’apertura alla crossmedialità, o la riflessione su modalità e finalità di un “mercato” del documentario e sui meccanismi di sostegno e finanziamento dei progetti; ma anche delle alleanze distributive e di marketing dei festival specializzati, come dimostra l’esperienza del network e portale on line DocAlliance (www.DAFilms.com), ben presente al Festival e che conta ormai un catalogo on demand di quasi mille titoli internazionali.
Al riguardo Marsiglia può comunque vantare da sei anni l’esperienza del FIDLab – piattaforma internazionale di coproduzione a diversi stadi di sviluppo – che ha già sostenuto diversi progetti di successo come nel caso di Sacro G.R.A. di Gianfranco Rosi. Quest’anno, tra i dieci progetti finalisti (scelti tra quasi 400 pervenuti da tutto il mondo) c’era anche (ed ha ricevuto uno dei premi) Jeunesse de Shanghai di un autore ormai affermato come il cinese Wang Bing, che ha presentato in anteprima francese Till madness do us part, durissimo spaccato dei manicomi cinesi, visto a Venezia 70 e premiato in dicembre anche a Filmmaker Milano.
Film politici, film biografici, ovvero il personale è (ancora e sempre) politico
Wang Bing a Marsiglia era però soprattutto il presidente di giuria del concorso internazionale che ha assegnato il massimo riconoscimento a un’opera politicamente assai attuale come Our terrible country, coproduzione tra Siria e Libano, diretta da Mohammad Ali Atassi e Ziad Homsi, che esplora le ferite della guerra civile siriana andando sulle tracce dello scrittore dissidente Yassin Haj Saleh, costretto all’esilio in Turchia dopo 16 anni trascorse nelle carceri di Assad padre (tra gli eventi speciali, sempre sulla tragedia siriana, c’era anche, già a Cannes, Eau argentée/Syrie autoportrait di Ossama Mohammed e Wiam Bedirxan che parla del ruolo di Youtube nel documentare e rappresentare il conflitto).
Altri film, altrettanto politici, anche se utilizzano registri diversi, hanno ricevuto specifiche menzioni. Tra questi due opere a regia femminile: I comme Iran di Sanaz Azari, giovane regista di origine iraniana cresciuta in Belgio che con intelligente e delicata ironia (e qualche ridondanza) va alla ricerca della sua identità culturale decidendo di apprendere la lingua farsi con l’aiuto di un vecchio sussidiario (edito ai tempi della rivoluzione islamica) e di un professore che quella temperie storica ha attraversato; Tourisme International di Marie Voignier (nella competizione francese) che continua la sua esplorazione degli immaginari politici contemporanei portandoci questa volta, con intelligenti scelte stilistiche che creano notevoli effetti di straniamento, nella Corea del Nord prigioniera del suo incubo ideologico ma che pure si apre oggi ai flussi turistici e, forse domani, all’esplodere delle sue contraddizioni interne. Non ha ricevuto premi o menzioni, ma vogliamo lo stesso segnalare l’intenso Brule la mer di Nathalie Nambot e Maki Berchache, che racconta con precise scelte formali (l’uso del 16 mm, gli inserti in super 8, le sovraimpressioni sonore) il disincanto degli immigrati, esuli della rivoluzione tunisina tradita, facendo parlare i giovani protagonisti ma ancor più, in un dialogo silenzioso con gli spettatori, i luoghi, dalle coste siciliane ai grigi falansteri parigini (regalandoci anche nel finale i meravigliosi versi di “A mia madre” del poeta palestinese Mahmoud Darwich).
Se scelte non proprio politicamente neutre erano anche il focus sul cinema spagnolo contemporaneo denominato “El futuro” (curato dal critico Gonzalo de Pedro Amatria, 11 titoli recentissimi tra corti e lunghi) così come la retrospettiva dedicata al pionere del cinema afro-americano Oscar Micheaux, il tema dell’esilio era il filo rosso di molti film presenti nelle varie sezioni. In special modo, di alcuni documentari biografici, film che – come testimonia l’esistenza di festival specializzati (quale il nostro Biografilm di Bologna, giunto quest’anno alla decima edizione) – sembrano oggi quasi configurarsi come “genere”. In realtà, si tratta di opere che vedono i registi muoversi in direzioni spesso opposte rispetto al soggetto/oggetto della loro ricerca. C’è infatti chi tradisce l’ansia di mostrare e raccontare tutto, come nel caso del francese Boris Nicot e di Filmer obstinément, rencontre avec Patricio Guzman, che pure si segnala per il grande lavoro di ricerca iconografica e audiovisiva e per le emozioni forti che ci offre l’incontro ravvicinato con la vita e l’opera del grande cineasta cileno, autore negli anni ’70 della trilogia La batalla de Chile (l’ultimo suo film, Nostalgia de la luz, è del 2010), da decenni in volontario esilio a Parigi. C’è invece chi preferisce sottrarre, o lasciare tra le righe, lasciando allo spettatore la curiosità di scoprire e connettere i fili. Di questa tendenza può porsi forse come portabandiera un’opera particolare e affascinante quale Le beau danger del tedesco René Frolke (già a Berlino, al Forum). Frolke infatti (classe 1978), con già matura sapienza tecnica e visiva, alternando colore e bianco e nero, DV camera e 16mm, ma anche scollegando i codici sonori e quelli visivi, compie un radicale lavoro di “decostruzione” del récit del film come della messa in scena. Pur attratto dai libri così autobiografici e dalla stessa romanzesca biografia dello scrittore rumeno Norman Manea – dalla reclusione nei lager nazisti a soli 5 anni alla repressione e all’esilio sotto il regime di Ceausescu, infine alle lotte contro l’oblio dei crimini commessi dal regime – Frolke sceglie una strada meno comoda. Dopo aver pedinato per la prima parte del film Manea tra seminari e presentazioni dei suoi libri, inizia a giocare sulla sottrazione della voce umana, rivelando lo scarto, la distanza tra i gesti e le azioni dell’uomo Manea (e delle persone che lui incontra) e quelli del personaggio pubblico (sulla confusione tra le due dimensioni, di uomo e di artista, si soffermava del resto una celebre intervista del critico d’arte Claude Bonnfoy a Michel Focault datata 1968 ma pubblicata solo di recente, e da cui il film prende il titolo). La narrazione di vita viene posta via via sullo sfondo e infine esce dal quadro, lasciando spazio a un dialogo sotterraneo tra i piani fissi di brani tratti dai suoi testi – parole scritte, incise sullo schermo – e immagini sempre più astratte. Insomma, Le beau danger sembra voler esorcizzare la paura espressa parecchi anni fa da Marguerite Duras (“il cinema distrugge le parole, è questa la sua attrazione”), lavorando proprio grazie alle immagini per “ridare alla parola lo stesso spazio”, come ha detto Frolke incontrando il pubblico dopo la proiezione.
La stessa Duras (alla quale il FID ha dedicato quest’anno un ricco approfondimento in occasione del centenario della nascita) onestamente ammetteva di essere diventata regista per guadagnare dei soldi, ma come un lapsus, un intervallo nel suo percorso di scrittrice. Un intervallo peraltro assai lungo (19 titoli, tra la fine degli anni ’60 e la metà degli anni ’80, ma il cinema lo aveva incontrato, eccome, già nel 1957 sceneggiando Hiroshima mon amour di Resnais). Questa consistente tranche de vie la racconta, in modo invero un po’ tradizionale, la sua montatrice Dominique Auvray in Duras et le cinéma. Anche qui forse volendo dire troppo con le parole, mentre sullo schermo volteggiano i bellissimi fantasmi di un cinema “povero” ma che ha i volti immortali di grandi attori e attrici del cinema francese (e anche italiano).
Per ulteriori approfondimenti sul cartellone e i premi cfr. www.fidmarseille.org
di Redazione