Intervista a Stefano Incerti
Anticipiamo un estratto dell’intervista realizzata da Anton Giulio Mancino a Stefano Incerti che sarà pubblicata integralmente sul prossimo numero in uscita di CineCritica (versione cartacea)
Cominciamo dal principio, per comodità: dagli studi universitari e dai primi cortometraggi in Super 8, dalla fine degli anni Settanta alla prima metà del decennio successivo.
Riconduco l’inizio della mia passione per il cinema alla prima volta che sono entrato in una sala. Era l’autunno del 1970 e avevo appena compiuto cinque anni. Il cinema era l’Alcione, oggi un supermercato. Non avevo mai visto tante persone insieme. Ricordo esattamente il momento in cui si spensero le luci, il crepitio delle casse dell’impianto sonoro, il jingle ed il logo della casa di distribuzione. La catena della CIC. Si da il caso, però, che i miei genitori mi avevano portato a vedere un film vietato ai minori di quattordici anni: Piccolo grande uomo di Arthur Penn. Per me, abituato ai western in bianco e nero della tv con John Wayne, fu un vero trauma.
Intorno ai dieci anni iniziai a chiedere con insistenza a mio padre di comprarmi una cinepresa Super 8 che finalmente arrivò. Fino ai quindici anni realizzai dei documentari (Capua e Santa Maria Capua Vetere o su Torrita Tiberina, il paesello vicino Roma in cui era nato mio padre…)
Poi, a quindici anni, mi imbarcai in un complicato progetto di animazione per realizzare il quale sacrificai l’intera estate. Il risultato fu un piccolo film, Secolo decimoprimo, che circolò nei festival non professionali di mezza Europa. Ma il vero salto avvenne con Persecuzione, ispirato da un racconto di Umberto Simonetta, realizzato a sedici anni. L’interprete era un mio compagno di classe. Raccontava una particolare solitudine, quella di un ragazzo che stanco dei soliti amici, fa un numero a caso dall’elenco telefonico e sceglie di perseguitare (oggi si direbbe stalking) il malcapitato, un uomo, fino al punto di accamparsi sotto il portone per cercare di scoprirne il volto. Il film si chiude, quando, dopo varie minacce (di far mettere il telefono sotto controllo di rivolgersi alla polizia…) l’altro sembra essere sparito. A quel punto è il telefono del nostro che si mette a squillare. I titoli di coda ci impediscono di capire se è l’altro, la polizia o…
Questo film di 25 minuti circa ha vinto vari premi in giro. Mi ricordo ancora che in una città del nord, forse Novara, mi accompagnò mio padre. E gli organizzatori andarono sicuri a congratularsi con lui. Mai pensavano che quel film così “cupo” potesse essere frutto del lavoro di un diciassettenne.
Ero molto portato per la matematica e la naturale prosecuzione di miei studi scientifici al liceo Mercalli a Napoli doveva essere l’iscrizione alla facoltà di Ingegneria. Ma al momento di consegnare la domanda allo sportello, come in un film di serie B, ho visto passarmi davanti tutta la mia vita e capito che stavo praticamente rinunciando per sempre al sogno di fare film. Così il giorno seguente, più per tranquillizzare i miei, preoccupati che il loro imberbe primogenito sbarcasse a Roma senza arte né parte, che per una vera predisposizione, mi iscrissi a Giurisprudenza. Laurea in tre anni e una sessione. E, prima ancora di dare l’ultimo esame e della discussione della tesi, avevo già fatto da assistente alla regia a Roma in un film di Enzo Decaro.
Le tappe successive, che siglano l’inizio della carriera professionale, sono l’incontro con Martone e in generale con quella che con troppo, precoce entusiasmo fu salutata come la “scuola napoletana”. Esisteva una “scuola” o fu piuttosto un concatenarsi di circostanze fortuite che all’esterno furono viste diversamente?
Nel 1991 dopo aver lavorato in varie vesti ad almeno altri quattro film, entro nella troupe di Morte di un matematico napoletano come direttore di produzione. Il film era prodotto da Teatri Uniti (Martone, Servillo, Neiwiller) e dalla Megaris (De Lillo, Magliulo). Teatri Uniti era un vero e proprio centro di aggregazione culturale prima che produttivo. Si aveva la sensazione di partecipare a un progetto importante, in coincidenza con una rinascita concreta della nostra città. Il primo Bassolino, grazie ad un’oculata politica, soprattutto economica, rastrellando fondi dal G8, dall’emissione di Buoni ordinari del comune e via dicendo, aveva dato un vero impulso a questa stagione fortunata e – ahimè – lontana anni luce dalla situazione attuale.
Inoltre, solo in apparenza lavorando in un settore distinto dalla regia, avevo la possibilità di apprendere un approccio, quello di Martone, da una parte totalizzante ed esclusivo, nel controllo dell’opera, dall’altro estremamente partecipativo, in grado di coinvolgere, tutti, fino all’ultimo runner nella creazione dell’opera. Credo di quell’esperienza di aver fatto mio il necessario rispetto delle collaborazioni alcune delle quali rimaste fedeli dal mio esordio, come ad esempio il direttore della fotografia Pasquale Mari.
Quel film fu anche occasione dell’incontro con Angelo Curti, produttore di Teatri Uniti, al quale portai il progetto del mio primo film Il verificatore, con Antonino Iuorio, che del film sarà protagonista. Era una storia alla quale pensavo da quando avevo diciotto anni. Era capitato in casa, praticamente all’ora di pranzo, un addetto alla lettura del gas, grosso come sarà Crescenzio nel film, che per raggiungere il contatore nel nostro bagno di servizio ci costrinse a interrompere il pasto: tutta la famiglia in piedi, e lui che si faceva strada nella giungla di secchi, bacinelle, salami. Pensai che quel povero Cristo doveva vederne ogni giorno delle belle e cominciai a ragionare sul mio Taxi Driver per i corridoi di Napoli.
Non era così facile riuscire a esordire negli anni Novanta. Il film ottenne il finanziamento statale, un piccolo contributo di Rai 3, e la distribuzione dell’Istituto Luce. Ma purtroppo proprio il venerdì prima dell’inizio delle riprese il film fu bloccato: il primo governo Berlusconi aveva congelato i finanziamenti. Convinto che il film sarebbe saltato per sempre e con il morale distrutto tornai a lavorare come aiuto regista: il film era I Buchi neri di Pappi Corsicato, con il quale avevo già fatto Libera.
Un altro aspetto chiave del tuo lavoro è il rapporto molto stretto che intercorre tra registi, attori, produttori, organizzatori, i quali sembrano far parte di una grande famiglia allargata, dove anche i ruoli non sono così marcati, piuttosto appaiono intercambiabili. In particolare nei tuoi film la figura dell’attore è talmente centrale che spesso i critici non colgono appieno il valore proprio della regia. Magari potrebbe essere persino un complimento visto che una buona regia comporta anche un effetto di trasparenza. Che può in questo caso avvantaggiare la performance dell’attore.
Sono convinto che la regia più psichedelica nulla può se non è soprattutto perfetta scelta del cast e capacità di direzione. Credo nella centralità dell’interpretazione. Per questo faccio precedere le riprese da ripetuti provini incrociati, tra diverse ipotesi di attori, lunghe letture a tavolino come se preparassimo un testo teatrale o qualcosa del genere. La regia deve mettere in condizione l’attore di esprimere naturalmente i sentimenti del personaggio e la ripresa deve valorizzarne le sfumature o sottolinearne la gestualità. Per questo una buona regia spesso è nascosta dietro un’ottima interpretazione. Ciò spiega come mai alcuni attori diano il meglio di sé con alcuni registi e non con altri. Tra l’altro la trasparenza, direi quasi la “invisibilità” della regia, è essenziale se si parte dalla convinzione che lo stile venga dettato dalla storia e non debba essere imposto come un marchio dall’autore. Una regia “muscolare” che prevarichi ogni altro aspetto con un uso esibito della tecnica, per me si chiama esercizio di stile, diventa estetizzante, una “poetica dello spot”. Capisco che l’effetto facile e facilmente intellegibile è più attraente, e appagante, anche per il pubblico giovane, ma per me il cinema, con la maiuscola, è altra cosa.
L’esordio nel lungometraggio diventa a un certo punto uno sbocco fisiologico, avendo già realizzato numerosi cortometraggi?
In realtà esordire non era così facile e soprattutto scontato anche per chi stava ormai mettendo insieme esperienze da aiuto regista e altre professionalità, tali da vantare una discreta gavetta. Volevo riappropriarmi di tutti i ruoli che rivestivo realizzando Super 8, ma nello stesso tempo ero consapevole di lavorare solo in funzione del poter prima o poi diventare regista. L’influenza tematica e stilistica era solo conseguenza della condivisione di artisti, tecnici ed anche di uno spirito finanziario e produttivo di “indipendenza da Roma”. Ma in realtà i film che vedevo e rivedevo per Il verificatore erano, come ho detto, Taxi Driver oppure L’uomo del banco dei pegni, La conversazione (il loft in cui lavora Beniamino, fratello del protagonista, è molto simile al laboratorio di Harry Caul), o Pickpocket…
La questione del finanziamento, dell’accesso a fonti di finanziamento, del rapporto con la grande produzione nazionale per te in particolare, che hai seguito dopo gli esordi un percorso più autonomo dai colleghi napoletani, una questione ancora aperta, delicata, complessa.
L’accesso ai finanziamenti è la nota dolente nel “sistema cinema” italiano. La scelta di temi o forme più coraggiose viene spesso confusa con l’eccentricità e immediatamente relegata al ruolo di autorialità d’essai, che non ho mai cercato. Attenzione, non che mi dispiaccia di essere annoverato tra gli Autori con una loro linea e soprattutto con una coerenza magari mantenuta a caro prezzo, ma questo è l’effetto non la causa. Nel senso che in realtà quando penso a una storia lo faccio ovviamente in funzione di un pubblico e non per me stesso. Scrivo e dirigo film che mi piacerebbe vedere al cinema ma in una logica popolare, perché pienamente consapevole che esistono altrimenti forme ben più solipsistiche per crogiolarsi con i propri esperimenti. Succede però che soprattutto in sala (diverso il discorso per la messa in onda televisiva) il pubblico italiano non sia addirittura messo in condizione di vedere alcuni film, perché zelanti funzionari della distribuzione, che ritengono di avere poteri quasi divinatori, stabiliscono che un certo film debba uscire a metà giugno in un pugno di copie sancendone la definitiva scomparsa. Così capita, frequentemente, che i miei film che siano più “visti” all’estero che qui da noi, che è una cosa che da una parte mi lusinga ma dall’altra trovo sinceramente paradossale.
Come nasce l’idea di un tuo film?
Ogni film ha una sua personalissima storia. Se Il verificatore parte da uno spunto se vogliamo autobiografico, Prima del tramonto è il frutto dell’incontro con Eugenio Melloni, autore di un soggetto molto originale che mi avvicinò con queste due paginette alla presentazione a Ferrara de Il verificatore. Leggo tutto quello che mi viene proposto, cerco le mie storie anche nei romanzi, anche se per ora ancora non mi è capitato un adattamento letterario. Altre volte invece è la cronaca che si fa sotto. Per Gorbaciof ad esempio fu un articolo di un quotidiano dal titolo Il cassiere col vizio del gioco a darmi lo spunto e la storia.
La vita come viene nasce da una sfida con Melloni, con cui avevo già scritto Prima del Tramonto: non preoccuparsi di fare un film drammaturgicamente enfatico, quasi mèlo, e, secondo un percorso tracciato per esempio da Altman e da Paul Thoams Anderson, provare a trasformare la coralità da limite (poco spazio per le varie trame e gli approfondimenti psicologici) in forza: i vari protagonisti finiscono per rappresentare così un preciso aspetto di un unico personaggio più complesso, che li contenga tutti.
Nel caso de L’uomo di vetro invece la proposta è venuta da un produttore, Mario Rossini, che fino ad allora aveva fatto solo televisione e cercava qualcuno che accettasse una sfida non proprio semplice: raccontare per il cinema la storia del primo pentito di mafia. Solo questo binomio in realtà, mafia e pentito, bastò a scoraggiarmi: troppi film al cinema e in televisione si erano fatti sull’argomento per poter avvicinarsi al tema con un minimo di originalità. Poi però, studiando con Heidrun Schleef e Salvatore Parlagreco, che su Leonardo Vitale aveva scritto un romanzo-documento, gli atti del processo a Leonardo Vitale, e le perizie psichiatriche fatte su di lui, mi accorsi che la vera chiave doveva essere – in tempi pre-Basagliani, ovvero nel 1972 – la follia indotta, gli undici elettroshock, la spinta a dichiararlo pazzo pur di salvarne la vita. Insomma la Sicilia e la mafia dovevano sì esserci, ma sullo sfondo, tentando invece di essere il più possibile introspettivi e profondi nel racconto delle psicologie. Più che il rapporto tra Stato ed anti-Stato, e cioè più che un taglio giornalistico o sociologico, mi interessava piuttosto, ovviamente nella necessaria ricostruzione del contesto della Sicilia del tempo il racconto della mentalità mafiosa, della psicologia di chi per scelta o per necessità è costretto a convivere con la Mafia anche nel quotidiano. Di come tra i due mali far uccidere il proprio figlio e farlo impazzire (così da delegittimare le confessioni del “neopentito”) si accetti la “cura” praticamente condannando il protagonista a una vita terribile tra ospedali psichiatrici, carcere e quant’altro. La forza drammaturgica della vicenda Vitale è tutta qui, nell’essere il protagonista sballottato tra il martello della mafia e l’incudine di uno Stato che non gli ha creduto o preferiva non credergli. Credo che la scrittura ritmata e asciutta, ma che non disdegna delle impennate anche commoventi, sia stata valorizzata dalle interpretazioni. È un film che vive sulle facce, le rughe e gli occhi dei protagonisti. Difficilmente credo mi ricapiterà una materia così ricca, sia per le possibilità di introspezione e d’analisi psicologica sia per la ricchezza e varietà offerta dal contesto. Un uomo fragile e indifeso in un ambiente che del maschilismo e della prevaricazione del potere ha fatto la sua regola. Proprio quel cortocircuito credo abbia conferito al film il tono teso e quella sensazione di continuo e angoscioso presagio che la solarità dei paesaggi credo renda ancor più struggente.
di AntonGiulio Mancino