Intervista a Mimmo Calopresti
L’intervista è stata effettuata in occasione della seconda edizione di CINEMA – Festa Internazionale di Roma
Nel suo film, L’abbuffata, sono molto forti l’esigenza di libertà e il senso di ribellione…
Non mi sento mai tranquillo, mai pacificato rispetto al cinema. Questi anni tra un film e l’altro sono serviti per incontrare ragazzi giovani che continuano a pensare al cinema come ad un sogno da realizzare. Tutto questo mi ha riempito di gioia! Via, via che incontravo queste persone, mi è venuta l’idea del film: poi, quello che fanno questi ragazzi è, un po’, anche quello che è successo a me. Il soggetto è di un ragazzo iraniano, Mahmoud Iden, me l’ha fatto leggere Valeria (Bruni Tedeschi) ed io ho provato ad entrarci dentro. L’idea di fondo è che il cambiamento, nella vita delle persone, sia necessario e che non bisogna chiederlo agli altri o alla politica. Bisogna provare! Nel film, c’è un mondo di conquista, di gente che vuole raggiungere qualcosa: questo mi accomuna a loro. Io non ho soluzioni per nessuno, però, sicuramente tentare dà la possibilità di incontrare persone, di conoscere il mondo.
Quanto c’è, dunque, di suo nei giovani protagonisti del film?
Nei quattro ragazzi c’è il bisogno di andarsene ovunque vi sia la possibilità di cambiare la vita. I ragazzi del Sud non sono solo quelli dello stereotipo, sono ragazzi che hanno voglia di muoversi, di saper fare, di innamorarsi. E’ qualcosa che è appartenuto anche a me: sono partito, sono andato a Torino. Questi ragazzi, per me, sono la speranza e sono gli unici in cui credo: partono per fare il film e non viene loro in mente di chiedere soldi al Ministero. Io la penso così: nessuno deve garantirci, siamo noi che dobbiamo conquistare le cose a cui teniamo.
Cosa pensa, invece, del regista “guru” interpretato da Abatantuono?
C’è questa questione degli autori che si prendono troppo sul serio e che produce una vera e propria separazione dal mondo. E’ necessario uscire dalla torre di avorio e prendersi anche un po’ in giro. Il personaggio di Diego rappresenta tutto questo!
Nel film ci sono anche non attori…
L’hotel di Diamante, in Calabria, dove stavamo era assediato da persone che volevano partecipare a questo film. Tante persone sono state prese dalle realtà e,poi, si sono mischiate con gli attori. Tutti aspettavano il grande attore: c’era una sorta di follia collettiva ma era anche molto divertente. Il cinema è un grande gioco, un divertimento che va anche restituito agli altri. C’è, nel film, un’idea felliniana: Fellini ha messo i suoi sogni nel cinema e li ha realizzati.
Centrale, a partire dal titolo, è il ruolo del cibo…
Quando tornavo nel Meridione, c’era il rito di andare dagli zii a mangiare: era un incubo ma c’era anche tanta generosità da parte loro. Gli immigrati che sono andati a Torino hanno trovato il benessere ma hanno perso altre cose: panorami e tramonti, colori e odori. Io ho questa nostalgia! Il Sud è un mito e questo mito deve resistere: è questa la sua forza. Spero che quella bellezza venga conservata!
Se il cinema è il mondo dei sogni, la TV sembra il luogo di tutte le brutture. O no?
La TV è un mondo che io stesso subisco: è un teatrino che sta in piedi in maniera forzata. C’è il rischio di morirci davanti, perlomeno di noia! Spero che il cinema sia un modo per combatterla!
Nel film, si dice che il cinema ha bisogno di purezza. Cosa intende, con questo?
Intendo il bisogno di verità: il cinema, forse, è il mezzo più potente, per questo. Per esempio, nel film, c’è un tramonto che non ho messo in scena io. Voglio dire che c’è sempre qualcosa che va oltre il baraccone che io stesso metto in piedi: il cinema, mi piace proprio per questo!
di Mariella Cruciani