Intervista a Luca Bigazzi

Pubblichiamo l'intervista realizzata da Franco Montini e Piero Spila per CineCritica n. 82-83, la rivista di cultura cinematografica a cura del Sindacato nazionale critici cinematografici italiani.

Gli esordi, la carriera, i successi del direttore della fotografia più premiato del cinema italiano. Poche luci, se possibile nessuna, niente ingombri sul set per dare massima libertà di movimento agli attori e alla macchina da presa. Un modo nuovo, rivoluzionario, per riaffermare la complessità e la dignità della luce naturale, sapendo che il rischio peggiore sta nel ripetere il già fatto mentre solo le cose azzardate possono tramutarsi in qualità e fantastiche sorprese. La morte della pellicola e l’avvento del digitale, elastico, versatile, economico, che apre nuove possibilità, soprattutto per i giovani.

Iniziamo da qualche dato: fin qui  7 David di Donatello, 6 Nastri d’argento, 3 Globi d’oro, 5 Ciak e poi numerosi altri premi, come quest’anno quello ricevuto al Bifest di Bari. Che impressione ti fa essere il direttore della fotografia più premiato del cinema italiano?

Mi fa pensare ad una fortuna sfacciata, perché questi premi non riguardano me ma i registi con cui ho avuto la possibilità di collaborare consentendomi di fare delle immagini belle ma soprattutto funzionali ai film che giravamo. Da solo non sarei in grado di fare niente.

Guardando alla tua filmografia, davvero intensa, quasi un centinaio di film in poco più di trent’anni, la cosa che più colpisce è la continuità di certe collaborazioni, ad esempio con Silvio Soldini (8 film), Paolo Sorrentino (6 film), Gianni Amelio (5 film), Carlo Mazzacurati (5 film) e così via. E’ una consuetudine di rapporto che significa affiatamento, riconoscimento, fiducia. Non può essere solo fortuna…

Amo mantenere delle collaborazioni lunghe, sempre. E’ una cosa che va oltre l’aspetto professionale perché in questo modo si crea a volte un rapporto di amicizia con il regista che influenza positivamente tutto il lavoro. Finora ho fatto con Paolo Sorrentino sei film e dunque vuol dire che con lui ho passato, ad occhio e croce, più di un anno e mezzo della mia vita. Stare insieme dalla mattina alla sera significa conoscersi così bene che alla fine non è più quasi necessario parlarsi, ci si capisce al volo, e questo è fondamentale sul set, dove in genere parlano in tanti e c’è molta confusione. Generalmente si pensa che il cinema sia un lavoro piacevole e divertente, in realtà è un mestiere faticosissimo e stressante, in cui si deve correre di continuo e si deve sottostare a costrizioni di ogni tipo. E’ un lavoro estenuante, dove la velocità diventa a volte determinante e una buona intesa aiuta. Per esempio, Sorrentino sul set è un regista velocissimo, io cerco di stargli dietro, ma lui è spesso più veloce di me.

Questa continuità nei rapporti immagino riguardi anche i collaboratori?

Assolutamente sì, il mio capo elettricista lavora con me da 28 anni, scherzando diciamo che avremmo potuto già celebrare le nozze d’argento. Sono felice di lavorare sempre con la stessa troupe, ma sono altrettanto felice quando qualche elemento della mia squadra, dopo alcuni anni, si allontana e decide di fare da sé, lavorando con altri, prendendosi rischi e soddisfazioni. Spero di aver formato in questo modo nuovi direttori della fotografia, più giovani di me. Ciò credo rafforzi l’idea che il cinema non si può fare da soli, è un’arte meravigliosa perché si fa collettivamente, e per sua natura e per necessità si deve vedere collettivamente. E’ una prerogativa del cinema. L’invito che faccio è di continuare ad andare al cinema, smettendola di guardare i film in televisione, con i dvd, sul tablet. Solo in una sala cinematografica è possibile capire se un film è davvero valido. La fine del cinema non è perché costa troppo produrlo ma perché le sale sono vuote.

La tua fotografia in genere è riconoscibile…

Spero di no, dovrebbe essere sempre diversa invece …

La stranezza è proprio qui. È diversa ad ogni film, eppure si intuisce che dietro certe immagini ci sei tu.

Un direttore della fotografia deve adeguare il suo lavoro alla natura del film. In questo sta la diversità. L’elemento che forse mi contraddistingue è il rapporto con le luci, che vorrei mai artificiose, vorrei anzi che non si sentissero.

Infatti, quello che si sa di te è che usi poche luci sul set.

Pochissime, ormai sono arrivato a non usarle quasi per niente, e questo grazie alla tecnologia della riproduzione digitale, che è enormemente superiore a quella offerta dalla pellicola. So di deludere molti, ma la pellicola è morta definitivamente, per fortuna, e nessuno deve avere dei rimpianti per questo evento, perché il digitale è molto più versatile, più elastico, più economico, e quindi apre nuove possibilità soprattutto per i giovani e per chi ha poche risorse a disposizione. Questo è un grande aiuto per un cinema in difficoltà com’è quello italiano e anche in generale.

Una leggenda, che magari nasconde un po’ di verità, dice che tu usi poca luce perché non hai fatto scuole di cinema, né apprendistato. All’inizio della carriera hai cominciato in maniera un po’ artigianale e con produzioni che mettevano pochi soldi a disposizione. Usare poche luci era quasi obbligatorio.

E’ stato così. Io ho avuto la fortuna, quella che dicevo all’inizio, di essere compagno di liceo di Silvio Soldini. Lui ad un certo punto è andato a fare una scuola di cinema a New York, io no, facevo soprattutto politica, nella sinistra extraparlamentare di sinistra e lo rivendico. A tempo perso mi occupavo di fotografia, camera oscura, usavo macchine fotografiche neppure troppo costose. Ero colpito soprattutto dal fenomeno, per me sconvolgente, di veder affiorare delle immagini dall’acqua del bagno chimico, diverse a seconda del trattamento e del tempo di posa. Quando Silvio è tornato a Milano, abbiamo deciso di realizzare un piccolo film insieme e ce lo siamo prodotto. Un film povero, in bianco e nero, fatto solo con degli amici. Era Paesaggio con figure (1983). Nelle nostre intenzioni doveva durare venti minuti e alla fine risultò lungo un’ora e venti. Abbiamo lavorato sei mesi, con pochissimi mezzi, e per le luci usavamo lampadine e tubi di neon, anche perché era un film molto notturno. Il film venne invitato anche al festival di Locarno. Da lì è cominciato tutto. Io non sapevo niente, neppure caricare la pellicola né tantomeno sistemare le luci. Mi sono accorto però che si poteva fare benissimo a meno delle luci, perché all’inizio degli anni Ottanta avevano cominciato ad arrivare delle pellicole molto più sensibili ed erano disponibili delle ottiche sempre più luminose. Questo significava alleggerire il lavoro e soprattutto cominciare a distruggere molte convenzioni del passato. Ora la tecnologia è andata ancora più avanti e se prima usavo poche luci, adesso, come ho detto, non le uso praticamente più.

Cambiando la tecnologia cambiava anche l’estetica del cinema.

E’ vero. Il realismo poteva entrare finalmente anche nell’immagine cinematografica. Una cosa rivoluzionaria. Marlene Dietrich, nei suoi film degli anni Trenta, era meravigliosa ma anche immobile, non si poteva muovere dalla sua posizione, altrimenti sul suo viso sarebbero apparse ombre sgradevoli. E anche la macchina da presa poteva essere mossa poco perché pesava più di cento chili. In A bout de souffle è stata usata per la prima volta una pellicola più sensibile per girare le scene in esterni notte a Parigi. Di lì, ma con molta fatica, è cominciata a passare l’idea che per la fotografia cinematografica si potesse lavorare in modo completamente diverso.


di Franco Montini Piero Spila
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