Inediti di Visconti: la contessa maledetta e la corruzione umbertina
La doppia ricorrenza, caduta nel 2006, del centenario della nascita e del trentennale della morte di Luchino Visconti, ha evidenziato in modo ancora più crudo e netto una certa tendenza di alcuni ambiti della critica italiana di oggi. È una tendenza, nient’affatto nuova, che consiste nello sminuire l’importanza dell’opera dell’autore de La terra trema. Probabilmente nasce dalla velleità di istituire in fretta e furia “nuove” scale di valori nella storia del cinema e dello spettacolo italiano, rimescolando le carte, spesso in modo confuso e pretestuoso, partendo alla scoperta di talenti misconosciuti o sottovalutati. Non si vede, però, perché un’opportuna rivalutazione, per esempio, dell’eclettismo di Alberto Lattuada debba accompagnarsi al disprezzo verso il cinema di Visconti.
D’altra parte, questa tendenza, volente o nolente, finisce per confondersi al fenomeno – esecrabile e penoso – della cinefilia trash nostrana che sta allignando perfino in ambito universitario nelle sue derive di esaltazione indiscriminata e forsennata del “cinema di genere”. Lo prova il fatto che quell’infimo sottogenere della commedia all’italiana, rappresentato dai grevi filmetti semipornografici di Michele Massimo Tarantini, Mariano Laurenti e simili, sia divenuto addirittura oggetto di recenti corsi universitari (sic). Sono i sintomi di un nuovo conformismo che ha i suoi modelli culturali nell’indifferenziato televisivo di matrice berlusconiana e che si maschera sotto il belletto di una spregiudicatezza fasulla e provinciale. Ne fanno le spese gli studenti più sprovveduti, indottrinati a non fare differenze fra Quel gran pezzo dell’Ubalda e Il Gattopardo, o, al limite, a snobbare quest’ultimo a vantaggio del primo.
È chiaro che in un quadro culturale così degradato e degradante, dove si denigra la figura dell’autore e si assiste a inquietanti riflessi speculari fra il mercato dei dvd venduti in edicola (che appunto pullulano di quei sottoprodotti degli anni ‘70 e ‘80) e i corsi monografici delle università italiane, l’opera di Visconti appaia una realtà archeologica estranea e remota.
L’Italia sembra diventata troppo angusta e malata per l’arte dell’autore di Rocco e i suoi fratelli. I milioni di spettatori che, negli anni ‘50, ‘60 e ‘70, uscivano di casa per andare a vedere i suoi film e le migliaia di spettatori che si recavano ad assistere ai suoi spettacoli teatrali, oggi non possiamo nemmeno immaginarceli. È vero che qualcosa, di quel pubblico, sopravvive ancora (basta vedere l’affluenza alle manifestazioni dedicate a Visconti o alle retrospettive) ma non si può più trovare traccia di un fenomeno “popolare” come quello dell’epoca, per l’abbrutimento di un pubblico condizionato da tre decenni di televisione abominevole.
Così, il visitatore che percorreva la Mole Antonelliana a Torino, dove è stata allestita una grande mostra fotografica dedicata a Visconti, o lo Spazio Risonanze all’Auditorium – Parco della Musica di Roma, teatro di un’altra esposizione, aveva l’impressione vertiginosa di aggirarsi fra le spoglie di un altro mondo, di un pianeta sconosciuto senza nessuna coordinata in comune con il presente. Al tempo stesso, poteva ravvisare i segni inequivocabili di una forza, di un’energia espressiva, di una reazione vitale contro i fenomeni negativi del proprio tempo, che rimane anche in quelle opere dove Visconti sembra essersi abbandonato alla contemplazione del passato (si pensi alla raffigurazione della volgarità del “nuovo che avanza” in Gruppo di famiglia in un interno, dove vediamo quella stessa borghesia e aristocrazia che, vent’anni più tardi, si venderà al berlusconismo).
Oltre alle mostre fotografiche, alle retrospettive e ai convegni, la doppia ricorrenza è stata soprattutto l’occasione per vedere finalmente pubblicati due importanti inediti, le sceneggiature de Il processo di Maria Tarnowska, un progetto mai realizzato, e dell’ultimo film,L’innocente, che fu presentato nel maggio 1976, due mesi dopo la morte dell’autore.
La contessa Tarnowska, burattinaia e burattino
Leggendo le oltre trecento pagine della sceneggiatura de Il processo di Maria Tarnowska. Una sceneggiatura inedita, a cura di Teresa Antolin e Alberto Barbera, con la collaborazione di Silvio Alovisio (Museo Nazionale del Cinema – Il Castoro, Torino-Milano 2006), si è colpiti dallo stesso sentimento doloroso provocato dalla lettura del testo de Il viaggio di G. Mastorna, il film mai realizzato da Fellini. La sceneggiatura, scritta a otto mani da Michelangelo Antonioni, Antonio Pietrangeli, Guido Piovene e dallo stesso Visconti, non è solo di grande bellezza, complessità e originalità, ma contiene alcuni motivi che anticipano le tematiche future del cinema viscontiano.
Intitolato originariamente Morte a Venezia, il progetto si ispirava ad un famoso affaire di cronaca nera, l’omicidio del maggiore russo conte Pavel Kamarowsky avvenuto a Venezia il 4 settembre del 1907, il clamoroso processo che ne seguì e la contorta ragnatela passionale legata a quel crimine. L’assassino era un altro russo, il dottor Nicola Naumof, che, in realtà, sarebbe stato un semplice burattino nelle mani dell’amante della vittima, la bellissima contessa trentenne Maria Nicolaievna Tarnowsky. La donna, che aveva un carisma seduttivo fuori dal comune, avrebbe calcolato di impadronirsi di un’assicurazione sulla vita del nobile assassinato con la complicità di un altro amante, l’avvocato Donato Prilukof. Naumof fu incarcerato immediatamente, ma gli inquirenti veneziani e austriaci si insospettirono per il ruolo avuto dalla contessa Tarnovsky, che venne arrestata a Vienna. Solo il 4 marzo del 1910, fu avviato il processo a carico suo e dell’avvocato Prilukof. Definito all’epoca “il processo dei russi”, attirò una vasta, morbosa attenzione da parte della stampa come dell’opinione pubblica, e si concluse nel maggio con la condanna ad alcuni anni di carcere per Naumof, Prilukof e la contessa. La Tarnowsky si trasformò subito in un personaggio leggendario e “maledetto”, una figura da feuilleton “nero”, ispirando romanzi e un film, Circe (1917), prodotto, diretto e interpretato dall’attrice polacca Diana Karenne.
Visconti pensò per la prima volta di ispirarsi all’affaire addirittura nel febbraio del 1943, poco prima di presentare Ossessione. Ne scrisse il soggetto (anch’esso pubblicato nel volume) con Antonio Pietrangeli, ma la censura fascista lo bocciò. Dopo la guerra, il duca coinvolse anche il giovane Antonioni (che all’epoca apparteneva al suo staff di sceneggiatori) e lo scrittore Guido Piovene per lavorare nuovamente su quella storia tra la fine dell’estate e l’autunno del 1945. In un primo tempo, fra i collaboratori, venne anche annunciato il nome di Klaus Mann e gli interpreti dovevano essere Isa Miranda e Vittorio Gassman, nel ruolo di Naumof. La sceneggiatura fu terminata nell’aprile del 1946, ma presto Visconti decise di rinunciare a Isa Miranda, probabilmente perché non lo ispirava come attrice, e si rivolse a Clara Calamai. Il progetto si arenò nell’autunno del 1946 e soltanto vent’anni più tardi il regista ritornò a pensarci concretamente, scegliendo Romy Schneider nel ruolo della contessa. Alcune dichiarazioni del regista esprimono i motivi del suo lungo interesse per quel personaggio: «una ragazza sposata a diciassette anni con un uomo corrotto, che la prima notte di nozze la portò in un posto di tzigani e si mise a far l’amore con altre donne sotto i suoi occhi. Quindi i traumi, la scoperta e poi l’amore del vizio, la sua vita di ricca avventuriera internazionale avida, drogata, criminale, il suo potere quasi ipnotico di seduzione, la sua intelligenza crudele, i suoi interessi pseudo-intellettuali e artistici, il suo delitto meschino, il suo sadismo» . Di questo progetto con la Schneider, rimangono solo alcune fotografie che la ritraggono insieme a Visconti durante i sopralluoghi a Venezia, in parte nei luoghi stessi del misfatto.
La narrazione della sceneggiatura inizia dal giorno dell’omicidio, mostrando però lo spazio “fuori campo” occupato dalla contessa Tarnowska, che è invasa dall’angoscia per quello che sta accadendo e di cui è l’occulta responsabile. Il tempo in cui si sarebbe svolto il racconto cinematografico coincideva con il processo, ma le testimonianze dei diversi personaggi avrebbero introdotto dei flashback dove gli eventi riguardanti le situazioni e soprattutto le azioni e i comportamenti della contessa, dovevano essere evocate dal punto di vista di Naumof, Prilukof e della stessa Tarnowska. Il tempo del processo è anche quello di uno scontro avvelenato da risentimenti, gelosie, frustrazioni e paura, fra i protagonisti di questo intrigo, che si combattono l’un l’altro usando l’arma della propria affabulazione e interpretazione di ogni evento del passato, che ciascuno recita e deforma a suo piacimento, per accusare gli altri e tentare di salvare se stessi.
La personalità della Tarnowska, presente, come scrive Gianni Rondolino, «con la sua presenza immanente, anche quando non appare direttamente», è una figura dove si agitano tutte le ombre dell’ambiguità, perché in lei agisce una forte pulsione sensuale, un’intelligenza calcolatrice e al tempo stesso, continui cedimenti di vulnerabilità, in un mescolarsi altalenante di debolezza e forza, sotto l’effetto di umori e impulsi contraddittori. La Tarnowska è al tempo stesso la burattinaia e il burattino di un gioco perverso. Per alcuni aspetti, anticipa la figura della baronessa von Essenbeck de La caduta degli dei, come osservò lo stesso Visconti, anche nell’improvvisa debolezza che rivela nel punto culminante della storia. L’universo aristocratico da cui proviene, è un mondo malato e in piena decadenza, il cui declino si riflette nell’indole della contessa e, in una forma più caricaturale, nella fisionomia ottusa del padre, che assiste al processo. Un altro elemento dominante, è il tempo: un tempo soggettivo, rivissuto dalle voci, quindi dalle individualità degli uomini coinvolti, in oscillazioni anche violente che corrispondono alle ondate passionali determinate dai mutamenti d’attitudine della contessa nei confronti di chi sta rievocando il passato. Il passato è sezionato in tanti brandelli che smembrano la verità, annebbiandola in una nebulosa contraddittoria dove qualsiasi ipotesi può essere vera. I personaggi maschili (compresa la vittima) sono posseduti da una forma di dipendenza verso la Tarnowska che si alimenta dell’ansia di proteggerla come del terrore di perderla. È l’alchimia della seduzione sviscerata nelle sue dinamiche più morbose e cangianti, dove ogni individuo (compresa la contessa) muta continuamente il ruolo di posseduto e dominatore, così come è attraversato da energie di segno totalmente opposto.
Il volume, oltre al soggetto e alla sceneggiatura, comprende anche alcuni saggi critici. Gianni Rondolino analizza il contesto biografico viscontiano in cui maturò e poi svanì il progetto; Veronica Pravadelli sottolinea il ruolo svolto dal masochismo (rispetto a Senso) e sottolinea che «la scelta di far narrare le stesse vicende da tre diversi punti di vista, con i tre protagonisti – Naumof, Prilukof e Tarnowska – che tramite flashback raccontano, uno di seguito all’altro, i fatti dalla propria prospettiva, anticipava le novità introdotte qualche anno dopo» da Rashomon (1950) di Akira Kurosawa. Antonio Maraldi, invece, si sofferma sul contributo di Antonio Pietrangeli, già aiuto regista di Ossessione, che nel 1948 collaborò anche ad un nuovo soggetto sulla stessa vicenda, scritto con Federico Fellini e Tullio Pinelli (e recentemente pubblicato sulla rivista di studi felliniani “Fellini Amarcord”), quindi ad un progetto che doveva essere diretto da Mario Camerini e che fu probabilmente scritto da Pietrangeli ancora con Fellini e Pinelli. Dopo un ulteriore tentativo nel 1949, con Alberto Moravia, Pietrangeli, ormai divenuto regista, avrebbe voluto dirigere egli stesso un film sul “caso” Tarnowska, nel settembre del 1968 (quindi poco tempo dopo che Visconti aveva manifestato nuovamente interesse verso il progetto, per poi abbandonarlo, sia pure non definitivamente). Ma morì in un incidente sul set. Infine, Carlo Montanaro analizza le scelte dei luoghi veneziani intraprese da Visconti, nella sceneggiatura e nei film Senso e Morte a Venezia.
L’innocente, contro l’Italia di D’Annunzio
La pubblicazione della sceneggiatura de L’innocente, scritta da Visconti con Suso Cecchi d’Amico, e Enrico Medioli, conclude il pregevole lavoro editoriale che Alberto Cattini ha dedicato all’ultimo decennio cinematografico del Maestro. La collana “Cinema – Sceneggiature originarie e materiali di studio”, edita dal Circolo del Cinema di Mantova, in collaborazione con La casa del Mantegna, aveva finora riproposto quattro sceneggiature (da La caduta degli dei a Gruppo di famiglia in un interno) , irreperibili dai tempi della collana “Dal soggetto al film” curata da Renzo Renzi per l’editore Cappelli. Anche la nuova pubblicazione è illustrata dalle splendide fotografie di Mario Tursi, fotografo di scena di quasi tutti i film di Visconti da Vaghe stelle dell’Orsa… (1965) a L’innocente (1976), e contiene i significativi, attenti commenti critici dello stesso Cattini che hanno il pregio di analizzare anche le forme linguistiche adottate da Visconti.
L’innocente è sempre stato un film sottovalutato, anche a causa del romanzo dannunziano cui si ispira e, fra i critici furono in pochi (per esempio, Morando Morandini) a valutarlo in modo adeguato. Un elemento importante, che emerge anche dalla sceneggiatura, è l’avversione del regista per quell’Italia umbertina, compiaciuta e corrotta, che invece veniva esaltata da D’Annunzio. È un’Italia che contiene già il focolaio di quel paese mancato che la penisola diventerà nel secolo successivo. Ritornando ad evocare un’epoca precisa, ossia la seconda metà dell’Ottocento, scrive Cattini, Visconti racconta una storia calata in un momento cruciale di trasformazione del paese, «per liquidarlo, disconoscendolo, privandolo di un’identità onorevole, di una paternità qualificata. Le vicende del personaggio accadono nel 1866. Sono trascorsi vent’anni dalla battaglia di Custoza in Senso (…) le peggiori previsioni del principe Fabrizio di Salina si sono avverate. L’Italia che fa da sfondo all’infame storia di Tullio è quella del governo dell’ex garibaldino Crispi: il paese del trasformismo, del malaffare, della corruzione». Allontanandosi dalle pagine del Vate, Visconti e i suoi sceneggiatori assegnarono alla moglie del protagonista, Giuliana, un’ambiguità che si esprime anche nella fisicità del suo comportamento, nella tensione repressa che si nasconde dietro una maschera opaca di remissività e passività di donna succube della prepotente autorità del marito, Tullio Hermil. I personaggi sono definiti da Cattini «maschere di un gioco per la sopraffazione e il compromesso» ed incarnano la sgradevolezza, l’ipocrisia, la vanità e, nel caso di Hermil, la mostruosa assenza di scrupoli morali dell’Italia che si sta preparando.
Cattini osserva che «la storia di Visconti presenta una concentrazione drammatica, un’ambiguità, una dialettica, un’antipatia per i personaggi, come mai si era riscontrato nelle sue pellicole». A differenza del romanzo, il film si conclude con un suicidio, come Ludwig(avviene anche lo stesso anno) e come Gruppo di famiglia in un interno, «ma senza l’aura del mito» che ammanta il film del 1972, «e senza la consapevolezza dell’indegnità e del disonore» che ha, alla fine, il Konrad del film del 1974.
Nelle pagine in cui analizza le scelte linguistiche viscontiane, Cattini osserva che il montaggio è «per lo più analogico, in qualche caso ricorre alla dissolvenza incrociata, in altri, a stilemi d’ironia, all’iperbole, o al suo contrario la litote, alla metafora». Nella collana mantovana è uscito nel 2006 anche Gruppo di famiglia in un interno, che riproduce la sceneggiatura già pubblicata nel 1975 da Cappelli nell’edizione curata da Giorgio Treves. Anche in questo caso, possiamo leggere delle pagine di analisi molto sottile e penetrante di Cattini, in particolare le sue considerazioni su come Visconti abbia usato lo spazio chiuso dell’appartamento e la funzione allusiva delle statue e dei quadri che circondano il protagonista. Rispetto alla sceneggiatura, è interessante notare come Visconti, durante le riprese, abbia attenuato le reazioni del professore, rendendolo ancora più impotente di fronte all’invasione della famiglia “mancata” che si è introdotta in casa sua, apparentemente come un’irruzione caotica di vita, sia pure triviale e pervertita, in realtà come un preannuncio di catastrofe, fallimento e morte. «Non lo turbano – scrive Cattini – né l’infedeltà della marchesa, né la prostituzione di Konrad, perfino riguardo al sesso a tre non tradisce moto di rifiuto. Eppure s’accalora con sdegno di fronte all’indifferenza morale della madre, che non ha pensiero per l’educazione sentimentale della figlia. Ed è la spia di una ferita sempre nascosta da Visconti».
Cattini analizza l’uso del campo e del controcampo, dove il professore finisce per configurarsi più un oggetto guardato a distanza, in balia degli eventi, che non un soggetto contemplante. «Il professore è morto al mondo, ovvero il mondo gli permette di scorgere sì belle forme carnali, e tuttavia labili, inafferrabili, come le ombre della notte: un teatrino privato in cui le figure della sua vita gli sono apparse per brevi istanti, e sono dileguate ai suoi occhi di spettatore immobile, contemplante».
Lo spettacolo degli spettacoli
Anche le mostre allestite per la ricorrenza sono state accompagnate da pubblicazioni che offrono vari motivi d’interesse. A Roma il Comitato nazionale per le celebrazioni del centenario, presieduto da Giuseppe Vacca, ha organizzato Luchino Visconti e il suo tempo, una splendida esposizione di fotografie di set e di scena, di immagini relative agli spettacoli teatrali e alle regie liriche, e di preziosi documenti (lettere, bozzetti, disegni, manifesti), provenienti dall’Archivio Luchino Visconti della Fondazione Istituto Gramsci di Roma. Alla mostra, curata da una delle più importanti studiose e ricercatrici dell’opera viscontiana, Caterina d’Amico de Carvalho e da Elio Testoni, si è unita la pubblicazione di un volume edito da Electa, sempre curato dalla d’Amico, che riunisce le perfette riproduzioni dei documenti e delle fotografie esposte. Per quanto riguarda i testi contenuti nel libro, lasciano molto delusi, invece, le pagine di Tullio Kezich, Quei luchini là… Contestualizziamo il Conte. Francamente, considerata la ricchezza e l’importanza delle biografie esistenti su Visconti, non si sentiva proprio la necessità di una carrellata biografica così allegramente infarcita di “divertenti” aneddoti sulla vita privata del duca. Anche perché questi aneddoti e raccontini sembrano soprattutto dei pretesti per ammiccamenti al lettore che forse avrebbero voluto essere arguti ma che appaiono riduttivi o per nulla significativi. Per esempio, quando Kezich descrive i rapporti fra Visconti e De Sica, ci si attendeva qualche annotazione un po’ più sostanziosa, che non la storiella secondo cui De Sica, da giovane, sarebbe stato vanamente concupito dal padre bisessuale di Luchino, per poi farne l’argomento di una battuta: «Potrei essere sua madre» (sic). A proposito della “grande triade” De Sica-Rossellini-Visconti, sorprende anche il fatto che Kezich non menzioni, nemmeno di striscio, il nome di Zavattini accanto a quello del primo. Un analogo tono “scherzoso” e privo di qualsiasi approfondimento, è riservato da Kezich ad ogni personalità confrontata a quella di Visconti. Ne fa le spese soprattutto Fellini, oggetto di un aneddoto che sembra più che altro un pettegolezzo, dove è raffigurato come un ipocrita che, durante la visione della Caduta degli dei, non guarda mai il film, “batte il piede, si dimena”, per poi affrettarsi a complimentarsi con Visconti. Che interesse può avere un aneddoto simile? Inoltre Kezich sbaglia la data de La caduta degli dei che non è il 1974 ma il 1969, e chiude il testo con un retorico e ovvio «c’è qualcosa che proviene da Visconti dentro ciascuno di noi». Grazie. La “contestualizzazione” annunciata dal titolo ci sembra quindi da rinviare ad altra occasione.
È invece emozionante il testo di Franco Serpa, La musica di Visconti, anche perché lo studioso è uno degli ultimi spettatori superstiti che abbia assistito alle regie liriche viscontiane dagli anni ‘50 al 1973, anno di una memorabile Manon Lescaut, dove «le due immagini culturali, quella del Settecento artificialmente rivissuto e quella del sentimentalismo crepuscolare operavano sovrapposte, e a tratti si confondevano o si distinguevano per una sottigliezza, una sfumatura, un particolare, calcolati nelle immagini e nella recitazione con una precisione infallibile». Il testo di Elio Testoni, Il teatro di Luchino Visconti, è un’utile antologia delle recensioni teatrali d’epoca dove si evidenzia, una volta di più, l’inadeguatezza di buona parte della critica teatrale italiana del tempo a cogliere gli elementi di novità del teatro viscontiano. Luchino Visconti e il suo tempo si conclude con una trentina di pagine di apparati biografici e teatro-filmografici utili ed esaustivi. Va segnalato, però, un errore: il progetto viscontiano (poi non realizzato) per il film tratto dai racconti di Poe Tre passi nel delirio non risale al 1970, ma al 1967.
Una bellissima mostra fotografica è stata quella curata dal Museo Nazionale del Cinema alla Mole Antonelliana di Torino, L’estetica dello sguardo. L’arte di Luchino Visconti, accompagnata da un sontuoso catalogo, a cura di Alberto Barbera e Raffaella Isoardi, dove si può ammirare una scelta di 98 fotografie di scena e di set, da Ossessione a L’innocente, firmate soprattutto da Mario Tursi, Paul Ronald e Giovan Battista Poletto, oltre che da Osvaldo Civirani, Angelo Frontoni e Alfonso Avincola.
Sempre nel periodo del centenario, Hystrio, una rivista trimestrale di teatro di Milano, diretta da Claudia Cannella, ha dedicato un ampio dossier all’attività drammaturgica di Visconti, curato dalla stessa Cannella (anno XIX, numero 4, 2006). Il dossier si apre con un’interessante intervista a Caterina d’Amico, che sottolinea l’ostilità della critica teatrale nei confronti di Visconti e non esita a definire “imbarazzanti” anche il giudizio di Silvio D’Amico su La locandiera. Un po’ sbrigativo, invece, il suo confronto fra Pasolini e Visconti. Anche se segnato da una reciproca estraneità (in certi casi, addirittura da una vera e propria ostilità), non si può proprio ridurre al “timore” che avrebbe avuto il poeta-regista, ai tempi della collaborazione con Piero Tosi per Medea, di essere «”viscontizzato” dal punto di vista dell’estetica». Il dossier comprende, fra gli altri, alcuni testi utili di Andrea Nanni sullo sperimentalismo viscontiano, di Ettore Capriolo sulle messinscene dei drammaturghi statunitensi, di Fausto Malcovati sulla predilezione per Cechov, e di Giuseppe Di Leva sulle sue regie liriche. Bisogna segnalare, inoltre, che Malcovati riporta alcune annotazioni dello stesso Visconti sui personaggi di Tre sorelle, che sono di notevole interesse: «Irina in principio è lirica, poi diventa logica. C’è dell’infantilità nelle sue parole, ma non deve venir fuori».
Infine, è preziosa l’intervista di Massimo Marino a Claudio Meldolesi che critica l’ingiustificato oblio sceso sul Visconti regista teatrale, ricordando che «mentre la regia italiana nasce sulla base della regia critica, cioè sull’equilibrio tra interpretazione e invenzione registica, Visconti, insieme a De Filippo e a Costa, dà vita a quest’idea del teatro come spettacolo unico. Persegue, cioè, un’idea dello spettacolo come utopica sfida all’invenzione continua. Era l’unico veramente in rapporto con i padri fondatori del ‘900 e seguiva questo pensiero dello “spettacolo degli spettacoli”».
di Redazione