La fine di Indiana Jones?

Marco Lombardi riflette sulla saga di Indiana Jones dopo gli spunti proposti dal quinto capitolo del franchise.

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Ci sono delle volte in cui il critico deve far cadere la penna, come succede a Ego in Ratatouille, per farsi sopraffare dalle emozioni e dalla memoria, rinunciando alle proprie (talvolta impolverate) categorie valutative. Una di queste volte si chiama Indiana Jones, perché l’analisi per immagini della sua ultima storia (proprio l’ultima? Speriamo di no, ci siamo già persi John Wick e rischiamo di giocarci i vari Spiderman nel Metaverso) rischierebbe di girare a vuoto in quanto Indiana significa innanzitutto avventura, con tutti gli elementi filmici che ruotano intorno a questo unico obiettivo come semplici soldatini, domandandosi anche loro “come andrà a finire?”.

Nell’ultima avventura, in cui Indy ha goduto (suo malgrado) di un po’ di digital lifting, spicca la sceneggiatura che, per ampiezza (e attualità: l’urlo contro le guerre è più forte che mai), è da paragonarsi a quelle di Indiana Jones e il tempio maledetto e Indiana Jones e l’ultima crociata, ben lontana dagli autocitazionismi di Indiana Jones e il Regno del teschio di cristallo e più strutturata di quella più lineare (comunque indimenticabile, perché origine del tutto) de I predatori dell’Arca perduta. Gli ingredienti utili a caratterizzare un Indy involontariamente in pensione, che viene chiamato dalla Storia a riprendere cappello e frustino, sono in buona parte presenti, fra la paura dei serpenti, la presenza di ponti traballanti e insetti giurassici, e soprattutto la “squadra”, costituita dal solito trio lui-lei-un bambino (un po’ cresciutello, nel caso del Teschio di cristallo).

Il film, tuttavia, non è affatto diretto agli Indy nerd, permettendo infatti un recupero a posteriori delle storie precedenti eventualmente perdute (che sono sì ordinate dalla storia, ma risultano comunque godibili anche in ordine sparso). La fessura temporale che nell’opera permette di viaggiare indietro nel tempo ricorda quella di Ritorno al futuro e pure l’altra d’Interstellar, e la ricerca archeologica che permette di arrivare al Quadrante del destino (studiato sì da Archimede, ma al fine di creare un ben diverso antenato del computer analogico) richiede più simbologia del solito, tale da far pensare a Dan Brown e al suo Robert Langdon. Ma il film non è un giochino per cinefili (e critici) affetti dalla sindrome del Rischiatutto, piuttosto uno che mette al centro un Jones mai così umano, dando priorità – al netto della sua propensione adolescenziale per l’avventura e la scoperta tout court – agli affetti (la – forse ex – moglie, Marion, che starebbe per lasciarlo perché travolta dal dolore per la scomparsa del figlio perso in Vietnam, in effetti “ucciso” dagli sceneggiatori perché personaggio poco riuscito, nel Teschio di cristallo).

Finisce un’epoca? Ci troviamo nel 1969, il nazismo è stato sconfitto definitivamente (nonostante il tentativo, da parte di un folle, di tornare indietro nel tempo per sbarazzarsi di Hitler ed evitare la sua sconfitta), ed Harrison Ford non è più un ragazzino, ma… chissà, visto che nella scena finale Indiana recupera il suo mitico cappello, quello che qualcuno aveva (prima del tempo?) steso su un filo per la biancheria, ad asciugare…


di Marco Lombardi
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