Incontro con il direttore della fotografia Ed Lachman
Ed Lachman, uno dei più interessanti e noti direttori di fotografia a livello internazionale, ha tenuto una seguitissima masterclass al Transilvania Talent Lab, una delle iniziative del TIFF 12, Transilvania International Film Festival a Cluj in Romania. Ed Lachman ha collaborato ad oltre 70 film, tra cui ricordiamo Cercasi Susan disperatamente (Desperately Seeking Susan, 1985) di Susan Seidelman, Selena (1997) di Gregory Nava, Il giardino delle vergini suicide (The Virgin Suicides, 1999) di Sonia Coppola, L’inglese (The Limey, 1999) ed Erin Brockovich – Forte come la verità (Erin Brockovich, 2000) di Steven Soderbergh, Lontano dal paradiso (Far from Heaven, 2002) di Todd Haynes per il quale ha ricevuto una nomination agli Oscar, Radio America (2006) di Robert Altman. E così via fino alla trilogia diretta da Ulrich Seidl, Paradies (Paradiso , 2012 – 2013) presentata durante il Festival in una no stop molto seguita.
I protagonisti dei tre film sono tre donne le cui storie offrono a Seidl il pretesto per raccontare mondi diversi. In Paradise: Love (2012), una donna va in Kenya per turismo sessuale, in Paradise: Faith (2012), un’altra donna inizia a predicare il cattolicesimo, infine, in Paradise: Hope (2013), un terzo donna che si unisce ad un campo di Weight Watchers.
Interessante conoscere qualcosa della sua preparazione culturale ed artistica che lo ha portato a studiare in Francia all’Università François Rabelais, corso preceduto da Bachelor of Arts in pittura presso la Ohio University, seguito da collaborazioni importanti con giovani e sconosciuti autori di varie nazioni, ma anche con Todd Haynes, Steven Soderbergh e Todd Solondz e, per il documentario, con Wim Wenders e Werner Herzog.
L’immancabile cappello sulla testa che mai abbandona nemmeno quando pranza, sguardo sornione, voglia di raccontarsi e di raccontare capace come è di chiacchierare con naturalezza e semplicità di temi anche complessi.
L’uditorio composto prevalentemente da giovani autori pende dalle sue labbra, gli offre spunto per varie precisazioni, è sempre pronto a formulare un’altra domanda, a cercare di scoprire qualcosa della sua capacità di artista nel donare emozioni.
Cercando un fil rouge in tutta la sua carriera che è spaziata dal documentario alla fiction, dalla commedia al dramma, dal cinema indipendente a quello più commerciale, mi sembra possa essere individuato nella musica e in quanto essa riesca ad esprimere, assieme alle immagini, delle emozioni del film.
Verissimo. La musica è sempre stata un tutt’uno col film. Non musica a tutti i costi con colonne sonore troppo protagoniste di ogni cosa, ma se la musica è usata correttamente, il film ne ottiene beneficio con una bella progressione naturale della narrazione. Le riprese hanno un ritmo, le immagini hanno un ritmo, e ho sempre pensato che nel cinema ci possa essere un modo di raccontare con pochi dialoghi proprio anche attraverso la musica. In questo senso ritengo che la musica e il cinema possano avere e hanno un rapporto simbiotico. Ho sempre creduto che se non fossi un regista o un direttore della fotografia, la musica sarebbe stata la forma che avrei voluto utilizzare per parlare alle emozioni delle persone. Mancandomi la bravura nell’utilizzo di questa forma d’espressione ho utilizzato le immagini anche loro in grado di comunicare ad un livello non verbale.
Pensa, quindi, che la musica per un regista sia fondamentale come le immagini e i dialoghi?
Mi piace l’immediatezza di ciò che la musica fa, e mi piace l’immediatezza di ciò che la fotocamera crea, quindi, anche nelle interviste de The Collaborators all’interno di The Creators Project, muovo leggermente lo zoom a mano, non uso uno zoom motorizzato, o uno zoom meccanico. Voglio dare anima a ciò che la narrazione dona, si entra ed esce creando un certo tipo di emozione che rende più forte e chiara la risposta dell’intervistato. Musica e immagini hanno linguaggi simili e possono essere assolutamente ‘complici’ di uno stesso progetto narrativo.
Le immagini apparentemente raccontano in diretta quello che viene detto dall’intervistato e potrebbero essere considerate realismo emotivo perché stiamo vedendo qualcosa in tempo reale. Ma non è così: è un lavoro dove la cinepresa non è vincolata ad altro se non ai miei movimenti. Ci sono altri modi per farlo, su un treppiede, con uno zoom, con illuminazione differente, che possono essere altrettanto efficaci. Quindi per me, la fotocamera fornisce un certo tipo di prestazioni, e sto interagendo con quel personaggio, con quella persona che stiamo intervistando. Anche io sto contribuendo a creare un’ambientazione per la persona attraverso il modo in cui muovo la fotocamera motivato dal comportamento degli intervistati. La fotocamera è condizionata da chi riprende? O è l’intervistato dovrebbe essere condizionato dalla cinepresa? Il linguaggio scelto crea anche un contesto emotivo per quel personaggio e questo è in parte ciò che la musica può anche fare in maniera quasi segreta.
Nelle riprese ho cercato di usare quello stile che univa musica e interviste negli anni ’70 e ’80 in cui si utilizzava uno zoom in movimento per dare forza emotiva al colloquio e rafforzare ciò che veniva detto. Ho cercato di mantenere un tipo di look minimalista che in realtà Jerry Schatzberg stava già utilizzando in spot pubblicitari e anche nella fotografia di moda. Riferimento ai differenti stili visivi che erano utilizzati in quegli anni, ma anche gli stili di delle immagini scaturiti in Europa, nel cinema indipendente americano ed europeo degli anni ’70. Gli anni ’70 sono stati il periodo più fervido e produttivo del cinema di Hollywood perché c’era un tale tipo di confusione su come raccontare storie e questa era la base per una vera per la sperimentazione senza limiti.
Ci vuole dire che cosa è The Creator Project?
E’ un network globale dedicato alla celebrazione della creatività, cultura e tecnologia iniziato nel maggio 2010. E’ un contenitore di arti globali e di iniziativa tecnologia creata da Intel e Vice al fine di sostenere gli artisti visionari, musicisti e cineasti che utilizzano la tecnologia per spingere sempre più avanti i limiti di espressione creativa. Il progetto comprende una comunità online e documentari, uno studio di creazione di contenuti, e una serie di eventi itinerante. Dalla produzione di documentari su artisti come Phoenix, Robyn, e Anish Kapoor, a collaborazioni a nuove opere di Spike Jonze, Arcade Fire e Hussein Chalayan. Il progetto raggruppa più di 150 artisti provenienti da tutto il mondo ed il loro numero è in continuo aumento.
Per concludere il discorso sulla musica, che cosa la rende buona ed interessante?
Penso che la musica sia una forza che crea un certo tipo di sensazione emotiva. Si può fare una riflessione, si può essere semplicemente coinvolti. Questa è la cosa bella ed affascinante della musica, potrei avere una diversa emozione dalla sua pur parlando un linguaggio comune: è affascinante vedere come una cosa possa creare sensazioni diverse in varie persone. Ma questa magia è solo della grande musica, di quella che non solo si ascolta ma si ‘sente’.
L’utilizzo del digitale la soddisfa o preferisce ancora l’uso della pellicola?
Penso che ci sia spazio per il mondo digitale nel cinema, quindi in un prossimo futuro avremo la fusione completa tra il film e il digitale. E’ solo che il mio occhio e la mia consuetudine artistica mi porta verso la pellicola, perché sono cresciuto con lei, ho imparato ad amarla e rispettarla. Non voglio dire che certe storie non possano essere raccontate in digitale ma poiché la struttura del colore è differente e l’esposizione viene notevolmente attenuata, bisognerà superare questi problemi. Con molto tempo e denaro, è possibile ottenere un sistema digitale più vicino alla pellicola, ma per me il risultato attualmente ottenuto non è completamente soddisfacente. Si dice che la scelta è dettata da un fattore di costo. L’operatore deve fare affidamento su ciò che vede il suo occhio e, quando usiamo pellicola, il nostro metro di misurazione della luce ed i nostri obiettivi. Con il digitale bisogna valutare che cosa sto realmente guardando perché non stai effettivamente vedendo quello che appare sui monitor. Questo limita la creatività, riduce le possibilità di realizzare prodotti innovativi o quantomeno originali. Probabilmente le nuove generazioni, nate col digitale, sapranno fare meglio di chi questo sistema impara a conoscerlo solo oggi.
Come giudica l’intervento di George Sluizer sul suo film incompiuto Dark Blood (1993)?
Se sono venuto qui anche per assistere alla sua proiezione, è implicito che accetti la sua idea di aggiungere una parte con la sua voce fuori campo per fare i collegamenti tra le scene girate con River Phoenix, deceduto prematuramente, e quelle solo scritte nella sceneggiatura. Così facendo, ha onorato River, il lavoro da lui fatto e ha permesso di vedere quella che è stata la sua ultima interpretazione.
di Redazione