Incontro con Ermanno Olmi
Capita talvolta che l’ovvio e il banale, nella propria icastica evidenza, acquistino una forza inedita, erigendosi al di sopra di più sofisticate e approfondite congetture di pensiero. È quanto potrebbe essere detto della prospettiva umanistico-riformatrice propria del regista ottantenne, che parte dalla questione religiosa affrontata nell’ultimo film Il villaggio di cartone, per tracciare un quadro chiaro ed essenziale delle problematiche sociali (nazionali e globali) di questo inizio millennio.
La conferenza stampa che ha seguito la proiezione in anteprima della pellicola (già presentata fuori concorso a Venezia e distribuita in ottanta copie a partire dal 7 ottobre), ha permesso poi di fugare ogni eventuale dubbio circa l’interpretazione del film, approfondendo l’ottica dell’autore in maniera trasversale a diversi argomenti.
Olmi appare sereno, sagace, pacifico ma fermo sul proprio messaggio che, detto da un credente (sui generis) quale egli è, suona squisitamente rivoluzionario: «dobbiamo abolire tutte le chiese». In primo luogo quelle religiose, ma anche le cattedrali economiche, politiche e culturali. Tutti quei gruppi di forza, insomma, dove l’uomo crede di trovare conforto e protezione, ma che offuscano il pensiero libero e individuale con l’idolatria e l’ideologia.
Nel film, dunque, il senso di perdita e smarrimento del vecchio prete nel vedere la propria chiesa svuotata di ogni elemento accessorio non rappresenta tanto lo smantellamento del concetto di fede, quanto piuttosto un gesto netto di emancipazione dall’oggetto/luogo di culto che ha esteso la propria influenza fino a diventare l’essenza della fede.
Un film nato un po’ per caso, dopo che lo stesso Olmi aveva dichiarato di non voler più realizzare lungometraggi. «Avevo in mente un documentario lungo le coste del Mediterraneo – spiega – alla ricerca delle nostre origini, delle grandi civiltà millenarie che ci hanno preceduto». Tuttavia, costretto a letto per oltre due mesi in seguito a una caduta, con il computer in grembo e la smania di un ragazzino, il regista racconta di aver come richiamato a sé queste radici, nell’impossibilità fisica di andarle a cercare.
Il risultato è formalmente agli antipodi di un film “geografico”, ma assolutamente lontano da una soluzione surrogata. Ambientato in unico ambiente oscuro e claustrofobico, il villaggio si fa luogo teatrale e metaforico. La finzione, infatti, è puntualmente dichiarata, e sui fondali spogli, mossi solo da linee direttrici e geometrie, si stagliano volumi solidi, oggetti e materiali, al pari delle figure umane, dei dialoghi scarni, delle musiche austere e solenni.
Tutto è ossessivamente simbolico. «Da aspirante cristiano, per me il Cristo è ossessione e liberazione al contempo. L’amore stesso è un’ossessione della quale posso liberarmi solo nel momento in cui amo come verbo amare e non come icona amore».
Come affrontare dunque il problema della libertà individuale? «Se la chiesa è fondata unicamente sull’uomo e tutti gli uomini sono la chiesa, allora occorre recuperare la facoltà di essere liberi, anche a costo della solitudine».
La solitudine del credente di fronte a Dio, dell’ateo di fronte all’universo, e che scopriamo essere stata la stessa del regista al di fuori dei circuiti ideologici e politici. «Non ho mai partecipato alla chiesa del cinema – afferma infatti Olmi tornando indietro con gli anni. Non sono mai stato comunista (neanche democristiano – precisa), e quando tutto il cinema era di sinistra io mi sono ritrovato isolato. Ma se non siamo disposti a pagare questa tassa morale, saremo sempre sudditi di qualche chiesa».
Oltre al riformismo religioso, colpiscono i toni profetici e l’inusitato ottimismo con cui si auspica il rinnovamento di una civiltà al collasso, il cambio di guardia tra popoli e culture e una più equa ridistribuzione della ricchezza: «se non cambiamo noi, sarà la storia a cambiarci, è inevitabile. L’industria non incarna più la sicurezza contro le incertezze della vita rurale, non è più garanzia di ricchezza. Dobbiamo riequilibrare i pesi. C’è un limite oltre il quale la ricchezza diventa offensiva ed essere straricchi assume la fattezza di un crimine».
Una visione sostanzialmente incentrata sul recupero di virtù morali autentiche e primeve, e su un rapporto con Dio scevro dall’appartenenza all’una o all’altra scuola, alla ricerca di una luce che anziché cadere dall’alto esploda da dentro. Un’iconoclastia moderata, che vorrebbe far cadere le chiese ma in qualche modo tiene il Papa al suo posto (pur contestandole, non demolisce, ma invita a interpretare certe immagini o dichiarazioni), e dove al vento furioso del cambiamento radicale antepone il respiro profondo e riflessivo del saggio. Volutamente didascalico, tanto nel film quanto nelle idee espresse, a Ermanno Olmi va certamente il merito di aver condensato in pochi nodi comprensibili a tutti alcune tra le questioni più controverse del nostro tempo. Le soluzioni? Quelle spettano a noi.
di Redazione