Incontro con Dario Argento

Dario Argento

Dario ArgentoL’intervista integrale sarà pubblicata sul numero di CineCritica in uscita nel mese di aprile 2004

Come vivi il rapporto con la critica, in generale, e con quella italiana in particolare?

E’ un discorso complicato: bisognerebbe raccontare molte cose. In ogni modo, io ho avuto un rapporto molto conflittuale con la critica italiana. Mi dà molta consolazione quando i miei film, dopo l’Italia, escono in altri paesi, dove vengono giudicati in modo più chiaro, più giusto, anche rintracciando tutta una serie di implicazioni. In Italia, chi ha parlato male dei miei film, sempre ne parlerà male, chi ne ha parlato bene sempre ne parlerà bene. Quando esce un mio lavoro, non c’è mai nessuna sorpresa. E poi di solito, le critiche migliori sono quelle in cui viene raccontata la trama. Si fa la lista degli attori e dei collaboratori (quando non viene sbagliata pure quella). Quando, invece, i critici si disperdono in rivoli diversi, vengono fuori considerazioni da far drizzare i capelli in testa, per non parlare delle occasioni in cui alcuni cominciano a raccontare il film secondo la propria visione della vita, o secondo una visione politica. Allora, sono guai. Io ho la sfortuna che i miei film escono prima in Italia; se fossero distribuiti prima all’estero tutto sarebbe diverso. Oggi, per esempio, c’è una critica spagnola che è diventata molto interessante. Prima era molto rozza, un po’ come quella italiana; adesso è diventata più acuta, più attenta a cercare in un’opera l’idea dell’autore, quello che lui voleva…

Cosa intendi dire quando parli della “rozzezza della critica italiana”…

Non tutta la critica è rozza! Quando parlo di critica, io penso ai quotidiani, che influenzano l’esito del film. La critica cinematografica dei settimanali, dei mensili, dei giornali specializzati, del web è molto diversa. Questo perché nel secondo caso, i critici hanno avuto il tempo di riflettere e non si sono influenzati a vicenda. I quotidianisti vedono il film, poi parlano tra loro, e la sera il pezzo è già scritto. Non hanno avuto il tempo di pensare, di far sedimentare il film. C’è un’enorme spaccatura tra questi due gruppi. Nocturno, per esempio, ha fatto un grosso inserto dedicato al mio ultimo lungometraggio e al mio lavoro ed era una cosa molto interessante, acutissima. Devo dire però, che del mio ultimo film, Il Cartaio, hanno parlato bene quasi tutti, tranne tre giornali, gli altri mi hanno graziato, forse perché mi vedono vecchio e non vogliono infierire.

Queste tue dichiarazioni forse possono servire a scuotere il sonnolento rapporto che c’è tra critici italiani ed autori, fenomeno che forse all’estero non esiste…

In Francia c’è stata una grande polemica tra critici e registi, l’anno scorso. Si invocarono, persino degli stati generali del cinema, per tentare una riconciliazione. Poi, non so se si è più fatto, ma so che il rapporto tra critici e autori è cambiato. Gli autori, chiamati in causa, si sono incazzati moltissimo e hanno tirato fuori tutto quello che pensavano. Anche molti critici si sono incazzati ma, da allora, è tutto cambiato!

La dimensione dei Festival è quella che abbrutisce, più di ogni altra cosa, i critici, i quali non hanno il tempo di riflettere in modo adeguato prima di scrivere un pezzo. Sei d’accordo?

Anch’io, a volte, vedo un film e poi, dopo quindici giorni, un mese, ci ripenso e tutto mi sembra diverso. Magari lo apprezzo di più o, viceversa, se mi aveva entusiasmato, mi accorgo di aver sbagliato.

Ti succedeva anche quando facevi il critico?

Può succedere a tutti. Poi ci sono i partiti presi, di quelli per cui Dario Argento fa film commerciali che non possono piacere, o film di genere, detto con una specie di sorrisetto, come se il film di genere fosse una cosa un po’ volgare e brutta.

Quando facevi il critico, avevi un occhio particolare per quel cinema che la critica “ideologizzata” dell’epoca non considerava. Tu come eri visto nell’ambiente…

Come uno snob capriccioso. Mi ricordò una cosa che mi colpì molto. Andai a vedere il primo film di Sergio Leone, Per un pugno di dollari, in un cinema di Roma. C’erano anche altri critici che avevano una certa aria di sufficienza. Comunque, cominciò il film, e io rimasi esterrefatto: non era una pellicola normale, c’era dentro un modo di fare cinema così ribaldo, così spavaldo, così esasperato, senza pudori…Il cinema, prima, non era così. Era tutto delicato. Uscii e vidi altri colleghi, parlai con loro. Non erano d’accordo. Io tornai al giornale e non sapevo che fare. A Paese Sera, quando cercavo di fare cose anticonformiste, trovavo, nella cassetta della corrispondenza, la lettera del direttore che mi rimproverava, dicendomi: “Non fare il capriccioso!”.

Dunque, quando eri un critico avevi un rapporto molto libero con il cinema. Cosa amavi di più in quel periodo?

Io adoravo il cinema della Nouvelle Vague e mi sembravano capolavori immortali i film di Andy Warhol. Un tempo, il Festival di Pesaro era monumentale: c’erano tutte le espressioni del nuovo cinema, per noi giovani era più importante che andare a Venezia, o altrove. Mi ricordo che lì vidi i primi film di Warhol: sbalorditivi. Questi film aprivano delle strade nuove, nuove prospettive. Non si poteva più essere come prima o fare il solito film. Incalzavano nuove esigenze di cui non si poteva non tener conto.


di Mariella Cruciani
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