Il primato delle relazioni umane – Incontro con Marco Bellocchio
Teme le critiche dei cattolici?
I censori, di solito, si fermano sulle parole, sui dettagli: un film va valutato, invece, nel suo complesso. Questo film è stato visto anche da alcuni sacerdoti: ammetto una mia bugia alla commissione di censura.. Ho detto che un grande cardinale aveva dato un’interpretazione, in realtà era un semplice sacerdote. Però lui disse davvero rispetto alla bestemmia: “Questo è il grido di disperazione di Cristo sulla croce!”. Non c’è nel film nessunissima intenzione di offendere qualcuno o di andare contro: sarebbero delle battaglie totalmente retrograde! C’è la rappresentazione di una storia familiare in cui è avvenuta una catastrofe dovuta non tanto a fatti cruenti ma a delle attese, delle incapacità, delle cose che sono mancate e che il protagonista si ritrova in quel sorriso che ritorna tanto spesso e che viene riconosciuto, non a caso, da una donna, da un uomo particolare (il conte Bulla), e da un cardinale.
La storia dovrebbe davvero tornare indietro, come dice il conte Bulla?
Il conte è, nel film, il punto più separato dalla realtà. Il film non è realistico, certamente, però parte da situazioni che potrebbero accadere… Il Conte Bulla si presenta come un provocatore, un Don Chisciotte, qualcuno che utilizza il trapassato remoto: addirittura Cavour… E’ un Don Chisciotte nel senso che coglie, partendo da una proposizione assurda quale la proposta di tornare a Carlo Alberto, da una parte, un fondo di cinismo che mantiene il personaggio coerente, dall’altra, fa un’obiezione rispetto al nostro passato, alla nostra formazione. Dice il Conte Bulla: non capisco perché dietro la cattedra ci debba essere il crocefisso. Questo non è giusto ed è anche la mia opinione.
Qualcuno ha detto che, nel suo film, c’è la nostalgia di Dio…
Io ho scritto questa storia ma, per mia fortuna, i fatti di questa storia non sono accaduti realmente: mia madre è morta tranquillamente nel suo letto. E’ tutta una trasfigurazione… Il fratello che si infuria e sintetizza in una bestemmia tutta la sua disperazione è il grido di dolore per qualcosa che non è riuscito a realizzare e che si confronta con una buona, relativa, realizzazione da parte di Ernesto, l’unico che, in qualche modo, lo capisce. Noi siamo stati educati negli anni ’50: la religione, purtroppo, ci è stata organizzata, razionalizzata. E’ stata tutta resa comprensibile, evidente, chiara, realistica. In modo impossibile. Quando uno diventa adolescente, adulto, questa formazione cattolico religiosa non regge più. Dire “io sono ateo” è , però, una formulazione di altri tempi, di tipo ottocentesco. Io sono laico credo nell’uomo e mi fondo sui rapporti umani. In questo non ho un riferimento al mistero della fede che rimane tale. Non è un arretramento rispetto alle mie convinzioni laiche e non è un compromesso. Trovo più interessante dialogare con un sacerdote e con l’assurdità della sua fede piuttosto che con un razionalista perché il razionalista non mi dice niente. Nel nostro mestiere la fantasia, l’assurdo, il mistero, sono il pane quotidiano.
Dubitare è un valore?
Ernesto, il personaggio del film, è molto dubbioso, come lo sono io. La fede uno ce l’ha o non ce l’ha. Però è interessante anche come in questo mondo dove l’incredulità, l’indifferenza è molto diffusa, ci sia una dimensione potenzialmente religiosa, o comunque superstiziosa, in cui l’indifferente non può fare a meno di certi riti come il battesimo, la cresima, la comunione, il matrimonio, l’estrema unzione. C’è, purtroppo, una lettura della religiosità tutta esteriore, tutta di angoscia nei confronti dell’esistenza della morte. Se sono laico perché devo sposarmi in Chiesa? Perché devo far battezzare mio figlio? C’era una battuta nel film che è stata tolta per ragioni di montaggio: un’affermazione di un Papa. Diceva giustamente: “Ma se uno è giusto avrà sicuramente il suo posto in Paradiso!”. Se uno si comporta bene, nella vita, stia tranquillo che andrà in Paradiso – l’ha detto Papa Giovanni XXIII !
Cosa ha cambiato, nel film, rispetto alla sceneggiatura iniziale?
La sceneggiatura è stata sostanzialmente rispettata. Ci sono, però, alcune cose che sono state in qualche modo ampliate, altre che si sono ridotte. Quando lavoro, cerco di prendere dagli altri, non riesco ad imporre.. Credo che il film sia stato il risultato molto felice del rapporto con Sergio Castellitto che, più di una volta, mi ha detto non soltanto “taglia” ma anche “aggiungi”. Ha dato anche dei suggerimenti per il montaggio che sono stati felicemente realizzati. La qualità, la verità, l’umanità nasce da quello che avviene lì, durante le riprese, perché hai delle persone che rispondono in un certo modo, che sono diverse da come tu te le eri immaginate. Quindi avere la possibilità materiale, economica, di poter rifare è fondamentale.
In cosa consiste “la mediocrità eroica” della madre di Ernesto?
Uno dei fatti che mi hanno sollecitato ad inventare questo film è che, in quest’ultimo papato, tanti sono stati i santi. Mi aveva molto colpito la santificazione recente di una coppia di piccolo-borghesi e mi ha fatto pensare a mia madre. In lei c’era una disponibilità totale, uno spirito di sacrificio, una rinuncia alla vita totali, al di là di ogni giudizio. Però “non basta questo” – come dice il personaggio della ragazza: quella poesia è una chiave per me, perché ci dovrebbe essere sempre in ciascuno di noi questa insoddisfazione assoluta e permanente. Cercare sempre qualcosa di nuovo, che sia meglio, sempre in un ambito assolutamente umano, di passionalità umana. Non è un film che ha lo scopo di dare la speranza al genere umano, però su quello che racconta vuole riconoscere all’uomo, ai personaggi, la bellezza e l’entusiasmo di una lotta. Non è un film di sconfitti, di rassegnati, di gente che dice: “Il mondo fa schifo, andiamo avanti così!”. Questo è il mio punto di vista, partendo da una condizione di umanità, di laicità, di stare qui al mondo. Al di là della retorica di dare il messaggio, di incoraggiare, di infondere ottimismo. Non è nelle mie intenzioni: qui si racconta una storia, per molti versi, molto drammatica, l’assassinio di una madre.
Perché per Ernesto è fondamentale innamorarsi?
La passionalità non ha bisogno di ragionamenti, però lui, come laico, dice: “questo è quello che conta!”. Quello che conta è se io sono ancora vivo, se ho ancora la capacità di innamorarmi. E’ importante il dialogo con l’ex-brigatista: “Tu scopi ancora?” “Si” – cioè sono ancora capace di innamorarmi. Ho ancora una passionalità che è la cosa più importante e che annulla la contrapposizione razionale, teorica credere/non credere. E’ questa la cosa preziosa: lui è l’unico che ha mantenuto rispetto agli altri fratelli una vitalità profonda, nonostante l’anaffettività della madre.
La sequenza del Vittoriano è molto bella…
Siamo in un ambito assolutamente artistico: il Vittoriano è fisicamente brutto. A prescindere dal Vittoriano, la bruttezza intimidisce. Una certa bruttezza di medio cinema italiano intimidisce chi inizia a fare cinema. Non si capisce perché tanti giovani registi comincino facendo delle cose brutte, senza senso. Evidentemente sono intimiditi dalla bruttezza che vedono. Il lavoro di sparizione o trasfigurazione è proprio il significato dell’attività artistica: l’artista vede la realtà e la trasfigura ma non ha bisogno di farla esplodere!
di Redazione