Il nobile mestiere di Suso Cecchi d’Amico
Il primo film scritto da Suso Cecchi d’Amico doveva chiamarsi Aviatar e non venne mai girato. Racconta Suso: «Doveva essere una riduzione dal romanzo di Théophile Gautier, e il produttore, Carlo Ponti, voleva realizzarlo sulla scia del successo ottenuto dal Dottor Jekyll: anche lì c’era la storia di uno sdoppiamento di personalità. Ci mettemmo tanto tempo a scrivere la sceneggiatura e non la finimmo. Ci lavoravo conAlberto Moravia, Ennio Flaiano e Renato Castellani. Moravia diceva: i dialoghi li faccio io che ho la mano dello scrittore. Ma ad ogni battuta che proponeva ci mettevamo a ridere. Soldati, che ci veniva a trovare ogni tanto, sghignazzava: come farete voi quattro a scrivere una cosa che dovrebbe essere romantica! E infatti non si fece». In questa testimonianza, che rievoca un episodio risalente addirittura ai primi anni Quaranta, c’è già molto dello spirito e del contesto in cui prende avvio la straordinaria carriera di Suso Cecchi d’Amico, ma sono anche esplicitati alcuni aspetti peculiari di un mestiere per molti versi anomalo, come quello dello sceneggiatore, e di un modo di intendere e fare cinema che forse non ha avuto più eguali nel mondo. C’è, per prima cosa, la doppia anima del cinema, quella più propriamente artistica ed espressiva, e quella industriale (il produttore che chiama a collaborare il meglio che c’è sulla piazza, ma insegue soprattutto l’idea di un filone di successo); c’è poi la tipica atmosfera della grande bottega rinascimentale (scrittori e sceneggiatori che si incontrano, discutono, confrontano, lavorano insieme); c’è la grande letteratura a cui attingere e comunque fare riferimento per “volare alto” (in questo caso Gautier e Stevenson, ma gli autori potevano essere, e saranno poi negli anni a venire, Maupassant, Cecov, Dostoevski, Proust); e c’è, infine, un preciso progetto produttivo da realizzare (sono presenti un committente e degli artisti) e contemporaneamente l’aleatorietà del caso, che nel cinema la fa quasi sempre da padrone. Quel film non si fece, eppure per Suso rappresentò l’occasione fortunata dell’incontro con Castellani, per il quale scrisse subito dopo Mio figlio professore, da cui prese avvio la sua splendida carriera: 111 film realizzati, tra cui molti capolavori entrati nella storia del cinema come Ladri di biciclette, Senso, Salvatore Giuliano, Rocco e i suoi fratelli e un’ intensa, proficua collaborazione con grandi maestri, quali Visconti, Antonioni, De Sica, Monicelli.
In occasione dei novanta anni di Suso Cecchi d’Amico ci sono stati incontri e convegni di studio, sono state organizzate retrospettive e iniziative varie, ma la sensazione finale è comunque quella dell’inesauribilità, di un cantiere tutt’ora aperto, tanto ricchi e articolati sono i materiali a disposizione, tanti gli aspetti e gli elementi da approfondire. Il primo dei quali riguarda proprio il mestiere dello sceneggiatore, che Suso ha sempre interpretato in maniera assolutamente personale: è stata molto più di un semplice collaboratore del regista (fino ad essere considerata giustamente autore, di pari ma autonoma dignità), e tuttavia senza mai minimamente intaccare i compiti, le prerogative, le responsabilità del regista stesso. Si vedano, in proposito, le tante dichiarazioni di Suso sulla funzione strumentale e subordinata della sceneggiatura rispetto al film da girare, oppure i suoi giudizi polemici su un diverso modo di intendere il ruolo di sceneggiatore sia rispetto al progetto del film, sia nei confronti del regista (Zavattini). «Non ho mai fatto la regia – ha detto Suso nel 1992 – ma sono contentissima di aver fatto da aiuto, da sostegno alla regia, di aver fornito al regista dei consigli, di essere stata spesso sul set a risolvere situazioni che richiedevano di volta in volta un cambiamento: aiutare, sostenere, questo è il massimo che può fare uno sceneggiatore». Appunto, un ruolo insostituibile, fondamentale, ma sempre a supporto di un progetto che non può che essere collettivo, non può che nascere dal confronto e dall’interazione con il regista. E alla fine l’esito estetico del film dipenderà certamente dalla qualità di questo confronto, ma sempre in primo luogo dalla sensibilità e capacità del regista, rispetto al quale lo sceneggiatore deve fare un passo indietro. Anche per questo motivo, tra tutti i mestieri del cinema, quello dello sceneggiatore è il meno riconducibile ad una codificazione precisa, ad un apparato di regole definite e intangibili. Anche se si susseguono e hanno molto successo tentativi, soprattutto di scuola anglosassone, di teorizzare la sceneggiatura, di standardizzare modelli e regole del racconto audiovisivo, resta al fondo una consapevole insoddisfazione. In questo senso sono illuminanti gli interventi e le prese di distanza proprio di una sceneggiatrice come Suso Cecchi d’Amico, pur assolutamente a proprio agio con la grande letteratura e quindi con le regole del racconto e della drammaturgia. Nel cinema occorre sempre qualcosa di diverso, qualcosa di sfuggente e di difficilmente definibile. Detto in modo diverso, è sempre dalle regole che bisogna partire (struttura narrativa, costruzione del personaggio e della situazione, conflitto, climax e anticlimax, ecc.) per poi però andare oltre e rimetterle in gioco. Con la fantasia, l’improvvisazione, l’esperimento, l’intuito. Tutte cose impossibili da mettere in teoria.
A proposito del libro di Age, “Scriviamo un film”, Suso ha fatto a suo tempo un’esplicita e significativa ammissione: «E’ un bel libro che ti spiega tutti i meccanismi per arrivare a costruire una buona sceneggiatura. La strana sensazione che ho avuto leggendolo era però di passare in rassegna un altro libro prezioso, quello dell’Artusi: “poi metti una noce di burro, aggiungi il prezzemolo tritato e un nonnulla di sale…”. Si segue attentamente la ricetta ma alla fine il soufflé non monta. Se uno non ha talento si possono conoscere tutte le ricette di questo mondo ma la cosa non funziona». E il risultato è sotto gli occhi di tutti. Le teorie e le tecniche di sceneggiatura se esasperate o pedissequamente osservate portano all’inerzia e alla morte della narratività, e il risultato più eloquente si vede attualmente soprattutto nella serialità dei prodotti televisivi, tanti racconti uguali, ripetitivi e senza anima. Mentre è proprio nel delta, nel quid in più, nello scarto rispetto alla norma e al canone che nascono le grandi e memorabili sceneggiature, e che è possibile anche riconoscere molti dei lavori migliori di Suso Cecchi d’Amico. Una sceneggiatrice capace di lavorare benissimo da sola e in gruppo, all’impronta, a misura dei luoghi e degli interpreti scelti (Ladri di biciclette) oppure a tavolino, realizzando testi molto elaborati e costruiti (Processo alla città), basandosi su documenti e atti ufficiali (I vinti, Salvatore Giuliano), oppure reinventando completamente costumi e linguaggi. Non è semplice eclettismo il suo, ma è il frutto di una grande scuola capace di mettere la propria arte (cultura, sensibilità, temperamento, fantasia) a servizio di un progetto per definizione comune come è un film. Non a caso, a proposito del lavoro di Suso Cecchi d’Amico, il riferimento più ricorrente è la grande bottega rinascimentale. Un luogo in cui ognuno porta il proprio sapere, dove non si lavora su modelli precostituiti ma su progetti da far vivere. Il mistero e la sacralità della bottega rinascimentale, la nobiltà di un mestiere difficile da tramandare, la grazia e l’euforia del capolavoro quando a volte arriva.
Piero Spila
di Piero Spila