Il linguaggio e la topografia della libertà nella Battaglia di Algeri

Il senso particolare dell’architettura urbana di Algeri si potrebbe ripescare nella sua dispersività topografica, nella slabbratura dei confini tra viuzze, vicoli, suk che non si possono dire distinti tra loro in maniera netta, non sigillati dalla precisione urbanistica consueta nelle città europee e non “concessa” a quelle nord-africane; il senso di un tessuto per natura espanso, invaso e, sembrerebbe, proprio in seguito a ciò, più tenero di fronte alle bordate delle invasioni. Un destino parrebbe allora geografico e anche storico. La casbah e il porto. La prima, l’intrico della pòlis che però in questa congerie umana-culturale ritrova ad ogni momento la sua radice storica; il secondo, la porta geografica aperta, un tempo, al va e vieni del commercio piratesco e poi (1830) all’occupazione coloniale francese che scompagina l’unità della storia algerina. E, d’altro canto, la divisione tra Casbah e Città europea (tout court la zona costruita come trapianto della borghesia francese, completa di locali, cinema e caffè) rappresenta soltanto un’illusione di equilibrio sociale, portando al contrario già in sé il segno della spaccatura politica.

“Come viene immaginata questa Città Nuova chiamata Libertà? E’ una città-simbolo che, nell’organizzazione stessa del suo spazio, parla agli spiriti e anima i cuori.” (1)

Alì La Pointe. Il punto di partenza della ”educazione” alla ribellione del giovanissimo algerino protagonista di La battaglia di Algeri di Gillo Pontecorvo coincide con la presa di coscienza dello spossessamento del territorio per mano del presidio militare francese, dell’impossibilità di una piena e non illusoria “circumnavigabiltà” di quella casbah dalla topografia si labirintica e imprecisa (i vicoli, le viuzze), ma anche per questo vero e proprio simbolo dell’identità storica di Algeri. La presenza diffusa del gendarme nella casbah è la materializzazione dell’oppressivo significato poliziesco della colonizzazione e Alì La Pointe attua il suo battesimo del fuoco nello scontro vis a vis con un gendarme a cui avrebbe dovuto, secondo gli ordini, sparare soltanto alla schiena con una pistola in realtà scarica. La nascita della ribellione popolare, attraverso l’eliminazione di vecchi capipopolo e con la generazione di nuovi giovani leaders di cui la Pointe diventa esponente di primo livello, fa scontare alla libertà il prezzo paradossale di un incatenamento del tessuto urbano della casbah, spazio che all’improvviso viene ri-codificato visivamente nei suoi tratti paesaggistici, che viene invaso con modalità militari e poliziesche bucandolo a attraversandolo con camion e truppe armate per vicoli, cortili, cantine, scale.

Lo spazio urbano è, nel cinema, maglia storico-prospettica; da il concetto di inquadratura, è riferimento visivo, quinta.” (2)

E l’ottica dei fatti (e parallelamente quella filmica che li pedina in direzione realistica) muta davvero gradualmente ora che la città ha squadernato teatralmente le sue quinte e da ora si troverà sempre più divisa, spaccata nella sua “intimità” geografica da una lunga teoria di blocchi militari, posti di controllo, gomitoli di filo spinato, cavalli di frisia. “La visione della città è semplicemente uno schermo su cui viene proiettato questo ideale che si cerca di concretizzare in un complesso di immagini […] Questi dettagli non confondono affatto l’immagine, ma hanno la funzione di porre in evidenza la perfetta trasparenza della città rispetto ai principi che ne sono alla base”. (3)

Il fortissimo scontro politico e bellico tra il Fronte di Liberazione Nazionale e lo stato maggiore dell’esercito francese introduce anche ad una dialettica permanente interna allo spazio, che si divide tra i poli dell’invasione e della riconquista, dell’apertura e della chiusura: inizia altresì il gioco al rimpiattino (se così si può dire) fra uomini diversamente connotati, in un’ottica di dignità umana; non semplicemente vittima e carnefice, oppressore/oppresso, colonizzatore/rivoltoso, ma ancor più in là: uomo e topo. Perché lo spazio della casbah si modifica e si struttura sempre più in architettura del pertugio, diventa una città-termitaio dai mille cunicoli comunicanti, adibita al nascondiglio a scomparsa, alle mura posticce delle cucine che celano altre stanze, ai pozzi d’acqua. Qui vive ancora il paradosso di un mondo-microcosmo internamente “carcerario”, intimamente spaccato e messo(si) ai ferri nel mentre agisce politicamente per la libertà.

“Sono questi stessi principi che presiedono alla società nel suo complesso e la città è soltanto una sorta di spazializzazione di valori sociali, morali ed estetici, la loro rappresentazione nello spazio”. (4)

Di conseguenza, lo spazio ribelle aperto/chiuso della casbah sembra omologo di quello chiusissimo dell’istituzione militare, ovvero gli uffici delle gendarmerie come le carceri, luogo delle torture abiette e umilianti, dell’interrogatorio poliziesco che, senza ipocrisie, è carneficina; e, ancor più che in vere prigioni (intraviste brevemente) le masse della rivoluzione trovano la segregazione nei meandri improvvisati della casbah, che sembrano quelle “Invenzioni e capricci di carceri” di G.B. Piranesi (1750) amate alla follia (e usate) da un grandissimo esteta della rivoluzione popolare quale era Ejzenstejn. Poi, negli uffici dell’istituzione si prolunga quel teatro delle parti – che nelle strade di Algeri fa sfilare i mascheramenti degli uomini in donne, i continui passaggi d’identità, di armi camuffate sotto vesti e ceste attraverso confini territoriali sempre più fitti, numerosi e diversi – con la conferenza stampa del leader catturato quasi per caso dai militari.

Nella Battaglia di Algeri le due forze antagoniste procedono con una certa alternanza di potere: cioè, le due forze subiscono un alternato e più o meno equivalente sbriciolamento attraverso l’azione indiscriminatamente terroristica delle bombe, ora in centri nevralgici del potere militare o della vita borghese (cinema, discoteche, bar), ora in luoghi della casbah colpevoli di essere presumibilmente attigui a formicai di rivoltosi: i dirigenti della polizia violano nottetempo con il sotterfugio la casbah per piazzare una bomba proprio come terroristi. La facilità estrema che dimostrano i seguaci di Alì La Pointe nel distribuirsi quasi magicamente dentro al tessuto sociale francese, arrivando a colpire e uccidere alte cariche della gendarmerie con disinvoltura beffarda è solo una chimera di vittoria: i vertici militari, noncuranti della pubblica opinione e della stampa francesi, proseguono senza remore nella repressione brutale (e nelle torture) ritenendola risposta a un dovere morale di difesa della patria di cui tutti i francesi devono farsi una ragione. Ovvero, se si vuole il colonialismo se ne accetteranno tutte le conseguenze.

“La città chiamata Libertà non è che una testimonianza fra le altre di un duplice movimento: quello dell’immaginazione utopistica alla conquista dello spazio urbano e quello dei sogni urbanistici e architettonici alla ricerca di un quadro sociale in cui potersi materializzare.” (5)

E l’Utopia di Alì La Pointe è visibilmente sempre più prossima alla degenerazione e alla morte: lo dice la città assediata come lo dice il clamore, diffuso nell’etere della casbah, degli annunci militari dagli altoparlanti posti sui carri armati e sugli elicotteri; ironicamente, interviene anche la toponomastica a scandire la progressione drammatica dei momenti della guerra, come nell’assedio delle truppe al nascondiglio dei due attivisti in un vicolo strettissimo dalle cui mura occhieggia una targa con la scritta: “IMPASSE” (!). La fine (momentanea) della rivolta popolare si esprime con un’ulteriore frattura/ferita dentro alle mura della città, con l’esplosione del nascondiglio di Alì, una ferita che, a dispetto dei commenti soddisfatti dei comandanti a passeggio tra le macerie, agisce per converso con un effetto non mortifero, ma benefico e “rigenerante”, come lotta vinta contro un virus di cui si é trovato il vaccino. Nel momento preciso della morte del capopolo ormai diventato eroe storico, l’intera casbah ritrova la sua piena dignità urbanistica/architettonica in una panoramica circolare che la incornicia tutta, svincolandola da quel pudore (storico) che prima ne mostrava solo membra parziali e sotterranee: l’epilogo è apparente, la storia si consegna al controfinale di una casbah notturna che parla con un’unica voce femminea in cui animisticamente si perpetua Alì La Pointe e di immagini (del futuro) in cui la lezione dell’eroe porta il popolo algerino finalmente dentro a quella Città Europea in cui definitivamente suggellerà diritti e libertà: in un impeto che non è quello di un popolo colonizzato, ovvero eternamente destinato alla sottomissione.

“Anche nella colonia penale non c’era, evidentemente, un grande interesse per questa esecuzione nella piccola valle, profonda, sabbiosa, isolata da ogni parte da pendii scoscesi e brulli […]. D’altronde, il condannato aveva talmente l’aspetto di un cane sottomesso, da dare l’impressione che lo si poteva lasciar correre liberamente per i pendii e che bastava chiamarlo poi con un fischio all’inizio dell’esecuzione perché accorresse.” (6)

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(1) B. Baczko, L’utopia. Immaginazione sociale e rappresentazioni utopiche nell’età dell’Illuminismo. Torino, Einaudi, 1979, p. 306.

(2) A. Licata / E. Mariani Travi, La città e il cinema. Bari, Dedalo, 1985, p. 5.

(3) B. Baczko, cit., p. 322.

(4) Ivi.

(5) Ibidem, p. 309.

(6) F. Kafka, Nella colonia penale. In: Id., Tutti i racconti. Milano, Mondatori, 1989, p. 265.


di Mathias Balbi
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