Il cinema multiforme di Manoel de Oliveira
In attesa di vedere su tutti gli schermi, dopo la prima veneziana e la proiezione straordinaria al Torino Film Festival, la sua ultima opera Palavra e utopia, si vuole qui evidenziare come il monumentale e multiforme cinema di De Oliveira sia, comunque, caratterizzato da un unico tema di fondo: la riflessione sulla condizione umana e sul bisogno insopprimibile di “rendersi padroni del caos che si è”.
La citazione nietzschiana, posta dallo stesso de Oliveira come epigrafe a Viagem ao principio do mundo (1997), costituisce un’efficace chiave di lettura per affrontare una filmografia sterminata nella quale protagonista è sempre l’uomo, solo, di fronte al mistero della vita. Come ricorda la filastrocca, vero e proprio leif-motiv del film del 1997, su Pedro Macao, simbolo dell’essere umano che, in completa solitudine, porta, sulle proprie spalle, il peso dell’esistenza. O la sequenza di Acto da primavera (1963), in cui Cristo, nel momento della sentenza, compie una sorta di percorso circolare, a dimostrazione di una mancanza di vie d’uscita, di impossibilità di fuga.
Se il film del 1963 rappresenta un punto fondamentale nella produzione oliveirana, è però, con Mon Cas (1986) che il cinema del maestro portoghese svela se stesso.
La vita come processo di ripetizioni, l’arte come ulteriore ripetizione della vita, la solitudine esistenziale di ogni uomo, isolato nella sua essenza, nella sua impotenza, nel suo “caso” personale: tutto ciò viene messo in scena magistralmente e sfocia, nel quarto atto, nel Libro di Giobbe.
La ricerca sull’uomo e sul senso della vita continua, senza sosta, in A divina comedia (1991): De Oliveira, attraverso personaggi che credono di essere Gesù, Lazzaro, Marta, Maria, Adamo, Eva, Sonia, Raskolnikov, Aljosa e Ivan Karamazov, un Filosofo, un Profeta, un Fariseo, S. Teresa d’Avila, si confronta, ancora una volta, con Bene e Male, Santità e Peccato, Vita e Morte.
Anche una pellicola apparentemente diversa da quelle finora citate, come Vale Abraao (1993), presenta, a ben guardare, la stessa problematica. Esemplare, al riguardo, la sequenza in cui Ema , la protagonista, insieme ad uno dei suoi amanti, discorre sull’etimologia della parola “rosa” che, in sanscrito, vorrebbe dire “anima oscillante”. Così Ema definisce se stessa e così appaiono anche i personaggi dei film successivi, in special modo le coppie di O convento (1995). In questo strano thriller-metafisico viene spesso letto il “Faust” di Goethe e, tra l’altro, il passo in cui Mefistofele, alla domanda “chi sei?”, risponde di essere una parte della parte che è esistita intera all’inizio di tutto, una parte delle tenebre in cui è nata “l’orgogliosa luce”, ora in lotta con la notte, antica madre.
Distruzione, calamità, principio, tornano anche in Inquietude (1998), nell’episodio della strega: la vecchia maga cita a Fisalina, che le succederà nel ruolo di “Madre del fiume”, il passaggio della Teogonia in cui Esiodo spiega l’origine del mondo e come la genesi si compia in assenza di Dio.
Dovrebbe, a questo punto, essere chiaro come il cinema di De Oliveira sia animato essenzialmente da una preoccupazione di tipo etico, di fronte alla quale chi guarda non può restare indifferente. Se in Mon cas lo spettatore è chiamato direttamente a partecipare, a mettere in gioco il “suo” caso, ad esaminarlo e trarre da solo le proprie conclusioni, A divina comedia propone una galleria di ruoli, di “tipi” umani, all’interno della quale ognuno può scegliere chi impersonare. Del resto, già in Acto de primavera, una voce recita: “tutti abbiamo un ruolo importante in questo atto”.
L’opera del regista portoghese ci inchioda a noi stessi, alle nostre responsabilità, alle nostre esistenze. E’ questo il significato dei ricorrenti sguardi in macchina degli attori: ogni spettatore deve, personalmente, assumere una posizione critica nei confronti di ciò che gli viene proposto, operare una scelta, pur sapendo, come Ema di Vale Abraao, che l’oscillare è il nostro luogo d’elezione.
di Mariella Cruciani