Il castello. Un documentario di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti
Al loro terzo documentario realizzato insieme, Massimo D’Anolfi e Martina Parenti (coppia nel lavoro e nella vita) confermano la cifra stilistica rigorosa e originale che già aveva contraddistinto I promessi sposi (2007) e Grandi speranze (2009). Il loro sguardo filmico -che ha assorbito la lezione dei grandi maestri- si muove con la precisione di un punto di vista consapevole, da antropologi culturali, o meglio “cross-culturali”, ma restando sempre partecipe delle passioni e debolezze degli umani, e mitigato da una ironia, a volte anche graffiante, sempre in agguato. E’ lo sguardo che indagava tra le maglie della burocrazia comunale in cui incappavano coppie, italiane e straniere, in procinto di sposarsi (I promessi sposi) o metteva a nudo in modo ineffabile i vizi e l’arroganza ignorante e quasi naive di alcuni giovani imprenditori italiani alla (presunta) conquista dei mercati cinesi (Grandi speranze).
Ora, con Il Castello, giunto in Italia (dove al 29° Torino Film Festival ha vinto il Premio Speciale della giuria della sezione “Italiana.doc”) dopo numerosi premi in alcuni dei più famosi festival internazionali specializzati (“Vision Du Réel” – Nyon, “Hot Docs” – Toronto, “EIDF” – Seoul), D’Anolfi e Parenti alzano il livello e la profondità della sfida, tanto sul piano narrativo che su quello formale, scegliendo di cimentarsi nel “ritratto di una frontiera”. Per un anno intero hanno infatti portato la videocamera all’interno dell’aeroporto intercontinentale di Malpensa, scelto come luogo (e “non luogo”) emblematico dell’ “ossessione securitaria” nel mondo occidentale: avamposto di confine (tra un supposto ordine interno e il caos esterno) dove si dispiega la risposta del potere ufficiale alle paure post-11 settembre mentre, e ben al di là di queste, dilagano per le strade xenonofobia e razzismo, generando spirali di violenza sempre più cieca, come le recenti tragiche cronache italiane hanno (di)mostrato. Luogo deputato e incrocio strategico poi per tutti gli agenti istituzionali e non (servizi segreti italiani e stranieri, polizia di frontiera, Guardia di Finanza, guardie giurate, cani anti droga, anti valuta, anti esplosivo ecc.) preposti alla sicurezza e dunque al controllo, su cui la prima si fonda; controllo in primo luogo visivo, fondato sull’occhio sempre acceso delle innumerevoli torri e telecamere.
Non a caso, alla presentazione milanese de Il castello, nell’ambito di un incontro organizzato, alla presenza degli autori, dal Dipartimento di Studi Giuridici “Angelo Sraffa” dell’Università Bocconi, il critico cinematografico e docente universitario Roberto Escobar ha evocato il “Panopticon” ideato alla fine del ‘700 dal filosofo sociale inglese Jeremy Bentham, ovvero quel modello di edificio a struttura circolare (applicato da allora soprattutto alle moderne prigioni) che consente ai controllori di osservare contemporaneamente diverse persone, senza che queste ne siano consapevoli. Escobar osservava peraltro acutamente che nel modello di Bentham (ma avviene analogamente anche a noi, rispetto agli schermi, display e videocamere che affollano lo scenario contemporaneo) è proprio lo sguardo dei “controllati” (che si convincono di essere sempre visibili o almeno vedibili) a rafforzare e alimentare l’obbedienza sociale e la pervasività del controllo stesso. Per questo, nello sguardo di D’Anolfi e Parenti, il “set Malpensa” si rivela per ciò che è: un concentrato poliziesco e penitenziario, una claustrofobica trappola tecnologica che lega indissolubilmente chi osserva e chi è osservato; del tutto appropriate risultano dunque le musiche stranianti di Massimo Mariani e la fotografia (dello stesso D’Anolfi) livida e biancastra degli interni (anche i rari esterni del film, del resto, non sfuggono a questa sensazione, come nelle labirintiche sequenze iniziali tra le piste innevate). Scandito in 4 episodi, ognuno corrispondente alle stagioni dell’anno (dagli “arrivi” invernali alle “partenze” autunnali), il film si muove con fluidità di racconto e di montaggio, alternando sapientemente differenti registri -dal drammatico, al sarcastico, al surreale- e geometrie di ripresa -da movimenti corali, che rincorrono i flussi incessanti di persone e cose, a lunghe inquadrature fisse, spesso mediate dai riflessi di specchi, vetri, monitor. La camera dei due filmmaker cerca, più che in altri loro lavori, il dettaglio e il riflesso, anche incongruo, la crepa, da una sistema relazionale basato su logiche preordinate di dominio e sottomissione. Includendo in un unico sguardo controllori e controllati, come nelle scene molto crude degli interrogatori, delle perquisizioni, delle radiografie che scoprono i traffici di droga dentro i corpi stessi delle persone, o in quelle, talmente iperrealiste da essere appunto surreali, dei controlli anti-droga svolti da specialisti in camice bianco su aragoste e tartarughe ancora vive e pesci (un po’ meno vivi), D’Anolfi e Parenti svelano il meccanismo (e i suoi diversi dispositivi e protocolli) della sicurezza. Sono consapevoli che “filmare è un atto di violenza” e che, con paradosso solo apparente, l’atto del filmare e la messa in scena dichiarata ha reso quei controlli comunque più “umani” e “finzionali”. Infine, troveranno la crepa, la faglia, l’anello mancante, nel meccanismo dei controlli e della sicurezza: quando nel terzo episodio (“Estate-Attesa”) incontrano (dopo settimane di appostamenti e reciproco studio, come racconterà D’Anolfi) una anziana signora che nell’aeroporto vive, sola ma indisturbata, cucina, si fa la tinta ai capelli, ecc. Una donna che pratica una sua “rivolta silenziosa” e che nessun dispositivo sembra riuscire a bloccare. Nelle immagini finali dell’episodio la vediamo fuori dal recinto aeroportuale guardare il cielo, in attesa di qualcuno o qualcosa. E’ qui che, in maniera solo più evidente (giacchè tutti gli incontri con le reali persone del film, soprattutto quelle “straniere”, lasciano intravedere il “fuori campo” visivo e narrativo), Il Castello incontra una possibile “finzione”, una via di fuga nello spazio e nel tempo rispetto alla realtà violenta di quel luogo e del nostro tempo.
Il Castello
Documentario, Italia, 2011, 90’ (versione corta 52’)
Regia, sceneggiatura, montaggio: Massimo D’Anolfi, Martina Parenti
Musiche: Massimo Mariani
Fotografia: Massimo D’Anolfi
Produttore: Montmorency Film (in collaborazione con Rai Cinema e il contributo di Lines)
di Sergio Di Giorgi