Identità e virilità nell’ultimo Cronenberg
Con i suoi due ultimi film, A History of Violence e La promessa dell’assassino, David Cronenberg ha compiuto un vero salto, raggiungendo una maturità espressiva ed effettuando una svolta che lo hanno definitivamente allontanato (alcuni direbbero “elevato”) dai suoi esordi di genere, sempre interessanti ma spesso non stilisticamente compiuti, e dominati da un gusto quasi infantile per il raccapricciante. Al raggiungimento di questa maturità artistica corrisponde la scelta di portare sullo schermo protagonisti pienamente adulti (non è un caso che l’ultimo film prima della “svolta”, Spider, fosse invece incentrato su un personaggio intrappolato dalla ragnatela dei propri traumatici ricordi d’infanzia, di fatto un bambino dalle sembianze di uomo), e la narrazione di due ri-nascite, entrambe avvenute, come natura vuole, grazie ad un tramite femminile.
In A History of Violence il protagonista Tom, interpretato da Viggo Mortensen, ci appare nelle prime scene come un cittadino e padre modello, gestore di un diner di provincia, ben inserito in una cittadina del Midwest statunitense, di quelle dove ogni casetta ha la sua palizzata bianca, e in cui tutti sanno tutto gli uni degli altri. O forse no: infatti scopriremo che Tom ha un passato imbarazzante, e addirittura un’altra identità, che si è lasciato alle spalle in modo volontario e – credeva lui – definitivo. La scoperta dell’”alter ego” di Tom avviene attraverso un atto di violenza (e con un atto di violenza gratuita e insensata si apre il film, come una sorta di prologo, o presagio, degli eventi a seguire): due criminali entrano nel suo locale e lui, che inizialmente appare mite e disposto a cedere alle richieste dei malviventi, davanti alla minaccia di stupro nei confronti della sua cameriera reagisce in modo del tutto istintivo e primordiale, tirando fuori una pistola e – gasp – la sorprendente capacità di usarla, molto bene.
Anche ne La promessa dell’assassino il protagonista, Nikolai, parte da un’identità per poi rivelarne un’altra. Inizialmente appare come l’autista di un piccolo boss della Vory V Zakone o mafia russa, in una Londra che pare la Manhattan diFuga da New York, quanto a toni lividi e atmosfere inquietanti, o l’Inghilterra di 28 Days, solo che qui il contagio (topos di Cronenberg) è ancora in corso, e il virus sono gli immigrati dell’Est; come il signor Wolf di Pulp Fiction (e con identica ironia), Nikolai “risolve problemi” e sembra la quintessenza del cool maschile nel milieu della malavita organizzata: compie atti di violenza senza battere ciglio (e senza “sporcare”), si spegne le sigarette sulla lingua, è coperto di tatuaggi. Dunque, Nikolai potrebbe essere il personaggio di A History of Violence prima della “conversione” – tanto più che l’attore che interpreta entrambi i ruoli è lo stesso, Viggo Mortensen, divenuto di recente una sorta di alter ego di Cronenberg (una versione più giovane, più affascinante e assai meno “compressa”, il che fa eco sia all’ossessione di Cronenberg per il tema del doppio – vedi l’agghiacciante Inseparabili – sia alla sua recente predilezione per raccontare storie di uomini che cambiano vita per cercare un’identità “migliore”).
«Joey è morto molti anni fa», dice Tom, riferendosi al suo ego precedente. «L’ho ucciso io. L’ho portato nel deserto e l’ho ucciso». E Nikolai, durante la sua iniziazione nella Vory V Zakone, racconta di essere «morto a 15 anni, e adesso mi aggiro nella Zona». Del resto anche i tatuaggi sul corpo di Nikolai dicono del suo rapporto di vicinanza con la morte (lo scheletro con la falce sull’addome) ma anche del suo tentativo di sfuggirle (il corvo sulla spalla significa: «Morte, non mi avrai»). In entrambi i film tuttavia il protagonista compie una sorta di rinascita, e il movente è una donna, l’essere umano naturalmente preposto a dare vita. Per meglio sottolineare questo passaggio, ne La promessa dell’assassino la donna in questione, Anna (assai ben interpretata da Naomi Watts), è proprio una levatrice. Anna, come le dice Nikolai, «fa nascere la gente», e questo spiega l’attrazione istintiva di lui per lei (dei motivi dell’attrazione di lei per lui parleremo più avanti).
In A History of Violence la “levatrice” è invece la moglie di Tom, Edie (Maria Bello), cui lui dirà: «Sono rinato quando ti ho incontrata». Con Edie, Tom ricostruisce la propria vita e identità, a immagine e somiglianza non solo dei propri desideri ma anche delle aspettative di lei.
In entrambi i film, dunque, a fare da “ostetrica” è la compagna del protagonista, o meglio il suo love interest, giacché la love story ne La promessa dell’assassino è appena accennata, anche se è la fonte di energia che innesca il processo di redenzione (di nuovo, di rinascita) del personaggio maschile. Eppure in entrambi i film più che di compagne si può parlare di figure materne, e la relazione che si instaura fra queste due donne e i due personaggi interpretati da Mortensen è molto simile: il maschio, teoricamente preposto a proteggere la femmina, è in realtà da lei protetto. Questo è soprattutto evidente in A History of Violence, dove vediamo fin dalle prime scene che la gestione familiare impostata da Edie, solo apparentemente dolce e fragile, è matriarcale. Addirittura, in lingua originale, Edie chiama indifferentemente il marito e il figlio adolescente baby, con una sottile condiscendenza, e quasi un sospetto di incestuosità, che stanno facendo evidenti danni sui maschi di casa: il marito è diventato una sorta di cagnolino da salotto, il figlio ha problemi a costruire la propria identità sessuale, al punto da sospettare in sé tendenze omo.
E se da un lato il ruolo di levatrice di Edie, che genera la rinascita civile del marito, ha una sua componente nobile, ed è inequivocabilmente inquadrato da Cronenberg come condizione necessaria (anche se non del tutto sufficiente) per la metamorfosi dell’uomo, dall’altro qualcosa, nel modo in cui il personaggio della donna è scritto e interpretato, ci fa pensare che contenga in sé quel potenziale inibitorio (diciamolo: castrante), cui Tom reagisce con violenza “maschile”. Emblematico, a questo proposito, il confronto fra la prima scena di sesso coniugale fra Edie e Tom, in cui lei si traveste da collegiale ma in realtà regge completamente il gioco, sottomettendo il suo compagno, e la seconda, che avviene dopo il tentativo di rapina al diner, dove è lui a dominare, trascinando lei (per una gamba) in un amplesso che ha poco di scolastico e molto di animalesco.
Anche Anna in La promessa dell’assassino, nonostante l’apparenza eterea e indifesa, mostra una volontà di ferro nel perseguire, anche con mezzi illeciti che mostrano in lei una notevole capacità amorale, il proprio scopo: che, guarda caso, è quello di diventare madre, cosa che biologicamente non le è riuscita, e questo la spinge ad accaparrarsi di una figlia non sua, mettendo a repentaglio la propria famiglia e il proprio love interest – ma non se stessa, poiché Anna, come l’Olivia di Braccio di Ferro nel famoso cartoon della sonnambula nel cantiere, riesce a rimanere miracolosamente immune alla sua passeggiata attraverso i bassifondi, dentro quella dark side del mondo al di là della quale, come le dice Nikolai, lei deve rimanere, al contrario di lui, che a quel mondo appartiene.
Entrambe le donne sono quindi sia veicolo di rinascita che ostacolo alla piena realizzazione maschile del loro compagno, ed entrambe agiscono non per generosità e forse neppure per amore, ma per un proprio tornaconto: Edie vuole una vita da palizzata bianca, da gestire in tutti i dettagli, compresi quelli sessuali ed emotivi; Anna vuole la figlia che la natura le ha negato. Nell’universo imperfetto di Cronenberg (che poi rispecchia quello in cui viviamo) non ci sono eroi, o eroine, senza macchia, e l’ambiguità delle intenzioni determina il corso delle azioni, in un modo che sfugge alla percezione cosciente dei personaggi, ma proprio per questo è credibile e, per lo spettatore, riconoscibile.
Tom e Nikolai devono, per richiamo istintivo, recuperare (Tom) o mantenere vive (Nikolai) le proprie caratteristiche “maschili” difendendole dall’abbraccio ri-generatore ma potenzialmente soffocante delle loro donne, perpetuando quella propensione alla violenza che ha da sempre segnato la Storia degli uomini (di qui il titolo A History of Violence, per un film che apparentemente narra una vicenda privata) per non perdere del tutto quella virilità che il femminile nobilita ma anche minaccia, quando la sua componente “materna” non si limita a generare ma prende il sopravvento nel rapporto di coppia.
In A History of Violence la rimonta di Tom, in quanto maschio, comincia con il recupero della sua capacità di perpetrare violenza fisica per autodifesa, e procede con l’applicazione di quella stessa violenza animalesca (in dosi minori, ovviamente, e mescolata alla tenerezza) al rapporto sessuale e sensuale con la moglie, per trasformarsi in un gesto di violenza estrema davanti al figlio (lezione esplicita del ruolo che la fisicità aggressiva gioca nell’identità maschile, incarnata in quel momento da Tom come padre e come maschio adulto) e nell’altro, altrettanto definitivo, nei confronti del fratello, poiché in A History of Violence, come in La promessa dell’assassino, l’identità maschile si delinea attraverso il raffronto diretto fra consanguinei: padri, figli, fratelli, veri o acquisiti.
E dunque in La promessa dell’assassino la minaccia alla virilità riguarda non solo il protagonista (che in una scena meravigliosamente recitata da Mortensen è costretto a «dimostrarsi uomo» violando una prostituta, mentre un altro uomo guarda), ma anche e soprattutto il suo giovane capo Kirill (Vincent Cassel), la cui latente omosessualità è continuamente sottolineata sia dalla mascolinità prevaricatrice del padre Seymon (l’inquietante Armin Mueller-Stahl, sicuramente rimasto nella memoria di Cronenberg per la sua interpretazione in Music Box di Costa-Gavras) che dall’attrazione-rivalità proprio con Tom, il figlio che Seymon vorrebbe. E almeno due volte nel film la virilità di Nikolai è letteralmente messa a nudo: durante la già citata scena dell’iniziazione, e durante il mortale corpo a corpo con due killer ceceni (vestiti da capo a piedi) nella sauna, laddove tutta la vulnerabilità maschile di Mortensen è esposta in piena vista, in una performance che non si può non definire eroica (oltre che erotica).
di Redazione