Il silenzio di Disco Boy

“Marcello, Come here!”

Se uno straniero dovesse descrivere il cinema italiano con una battuta, probabilmente la scena iconica de La Dolce Vita di Federico Fellini finirebbe per essere la maggiormente quotata. È emblematica per quello che è stato il cinema italiano nello scorso secolo: è difficile non sentire la frase e non pensare a Marcello, sì, ma Mastroianni. Nell’immaginario collettivo, La Dolce Vita è lui. Così come Monica Vitti è Deserto Rosso, Gian Maria Volontè è Indagine di un Cittadino, prima ancora che siano Federico Fellini, Michelangelo Antonioni, Elio Petri. Nessun torto venga fatto per

i citati registi, in questo passaggio si vuole descrivere l’immagine che del cinema italiano classico ha uno spettatore medio, che non si occupa di analisi o di critica e che non analizza Deserto Rosso in funzione dell’incomunicabilità Antonioniana, per esempio, ma ci vede la protagonista, non il personaggio, ma l’attrice protagonista. Da qui, l’importanza, ancora prima della voce autoriale del regista, del ruolo dell’attore centrale. Si tratta di un’eredità del teatro, già oggetto di discussione nel primo Novecento si ricordi in che modo Pirandello mette in scena un regista-tiranno che non riesce

a tenere le redini del proprio spettacolo, in una realtà teatrale italiana dominata da attori-capocomici più che da figure distinte di registi, come avveniva in altri paesi europei.

Di certo, spulciare il cinema del secolo scorso e addirittura il teatro pirandelliano è un volo pindarico notevole, per parlare di cinema italiano contemporaneo, eppure è necessario per comprendere alcune tendenze che oggi vediamo sul grande schermo e che saranno oggetto di analisi in questo testo. Infatti, se il pubblico percepisce più gli attori che gli autori, ne consegue una

maggiore importanza, almeno a livello di diffusione, di un’opera con una forte figura attoriale piuttosto che autoriale. Tantissimi i film usciti nel periodo post-oscar che sono stati trainati al botteghino per la presenza di Toni Servillo o di Pierfrancesco Favino – discorso che non vuole nulla togliere alle qualità artistiche di nessuno dei film interpretati da loro, anzi: spesso il pubblico più vasto scopre talenti che sarebbero rimasti nell’ombra, in altro modo. Ariaferma è di certo un capolavoro che racconta un problema sociale, il sovraffollamento delle carceri, attraverso un contesto opposto, un carcere semivuoto, e che altresì mette in scena un’umanità che supera le differenze senza forme di retorica, ma ciò che attrae in Ariaferma uno spettatore è anche la contrapposizione di Toni Servillo e Silvio Orlando, un confronto di performance che rende l’opera quasi un incontro di pugilato, a suon di sguardi, battute, espressioni represse o trasmesse.

Questo protagonismo attoriale non può che influire sulla messinscena: un film diventa un mezzo per dimostrare la bravura dell’attore, e spesso finisce per caricarsi di elementi che potremmo descrivere come “teatrali”, più che cinematografici. Non è un caso che nell’ultimo paio d’anni, il teatro è stato il soggetto di più film: Mario Martone con Qui rido io rivisita proprio un mondo teatrale in cui

l’attore ha il completo controllo sullo spettacolo; Roberto Andò invece ne La Stranezza esplora le radici delle teorie pirandelliane sul teatro, e nella scena in cui viene presentato Sei Personaggi in Cerca d’Autore colloca volti notissimi, come quello di Luigi Lo Cascio, Fausto Russo Alesi o Margherita Buy, così ampliando il discorso, forse involontariamente, anche sulla questione della stardom di un attore. Coincidenza fortunata vede la presenza di Toni Servillo in entrambe le opere.

Se il cinema quindi si avvicina al teatro, una conseguenza è la dominanza, nel testo filmico, di

linguaggi che dominano il teatro, tra cui, la parola. Se il cinema posteriore all’Oscar de La Grande Bellezza è lungi dall’essere “morto”, solimpsista, incapace di sorprendere a modo suo, o di portare il pubblico, come qualcuno dice. È altresì vero che la centralità della parola e del dialogo è forse ciò che rischia di renderla più “stagnante”. Se è difficile trovare un filo rosso che colleghi gran parte

delle opere migliori uscite quest’anno, tra cui annoveriamo Rapito di Marco Bellocchio, Comandante di Edoardo De Angelis, o C’é ancora Domani di Paola Cortellesi, è la preponderanza del dialogo come forma di narrazione principale. Sia chiaro che questo non toglie nulla a nessuno dei tre film, o a nessuna delle performance. Anzi, rispetto alla preponderanza del dialogo, ciascuno di questi film presenta una scelta estetica o stilistica che la valorizza, e bisogna sottolineare che ognuno di questi film è un capolavoro a modo suo. Ciò nonostante, è un dialogo che compie con il

suo secondo che presenta il carattere di Todaro in Comandante, è l’incontro con la madre ed il successivo dialogo che rende chiara la posizione morale di Edgardo in Rapito, ed ancora in C’è ancora domani è ascoltando un dialogo che Delia si insospettisce riguardo al carattere del futuro genero – scene che prediligono una certa verbalità. Poi, nel carnet del cinema italiano di quest’anno, c’è Disco Boy, che riscopre il silenzio.

Si intende non il silenzio completo, ma il non-verbale, la rimozione della dimensione della parola, che si riempie a sua volta con altri suoni, la musica, o i rumori.

Se la maggior parte del cinema uscito quest’anno predilige il dialogo, in Disco Boy, di scene in cui il dialogo tra attori è centrale, ce ne saranno due o tre, nessuna più lunga di un minuto, stretta al minimo necessario per ragioni drammaturgiche.

Un esempio palpabile è la scena in cui il protagonista chiama la madre dell’amico scomparso, una scena di cui lo spettatore vede solo uno scambio di due battute in cui il protagonista si presenta e che stacca ancor prima che dica altro – scena che in un altro film italiano si sarebbe probabilmente caricato con uno scambio strappalacrime di battute, ma che nel film di Abbruzzese riesce a

trasmettere il contenuto, l’emozione ed il talento senza espandersi troppo in linguaggi verbali. Sono i movimenti di danza, i volti dipinti, le scene oniriche che raccontano la storia, non i dialoghi dei personaggi. Qui, la forza “inedita” di Giacomo Abruzzese, che sceglie di prediligere il

linguaggio visuale, l’estetica della fotografia e del suono, e di confondere la narrazione quasi serrata finché non sfocia in qualcosa di concettuale, piuttosto che serratamente tradizionale. In tutto questo, la performance di Franz Rogowski non lo devalorizza, anzi, ne esalta le capacità espressive.

Si potrebbe cadere nell’errore di imputare la peculiarità di Disco Boy al fatto che non sia un’opera di lingua italiana, o che mette in scena un soggetto ambientato in territori “esteri”, con protagonisti non di nazionalità italiana. Lo stesso discorso potrebbe essere fatto su Io Capitano di Matteo Garrone, interamente in lingue straniere, interamente ambientato all’estero. Addirittura, entrambi i film hanno una tematica comune, legata alla dimensione post-coloniale e le conseguenze disastrose dell’imperialismo sul continente africano. Eppure, Io Capitano e Disco Boy risultano film diversissimi, proprio perché Garrone predilige dialoghi su dialoghi, e Abbruzzese li rimuove.

Negli scorsi anni, pochi prima di Abbruzzese hanno compiuto tentativi stilistici che rimuovano a tal punto la forma del dialogo da un’opera non sperimentale: Matteo Rovere ne Il Primo Re riesce a

mantenere questo “silenzio” in alcune delle scene chiave della prima metà del film, ma cede verso la conclusione; Laura Samani in Piccolo Corpo evoca un potere molto suggestivo di immagini e suoni in quasi tutto il proprio film, ed è forse l’esempio migliore di non-verbalità che precede di poco Abruzzese.

È forse in questa forma non-verbale di cinema che il panorama italiano potrebbe trovare una novità inaspettata, che potrebbe da un lato portare ad un rinnovo estetico e stilistico. Non si auspichi una nuova onda – del resto, Piccolo Corpo e Disco Boy, i due esempi più forti di cinema finzionale che predilige il non-verbale, sono film che scelgono direzioni molto diverse per le loro forme non- verbali di comunicazione. Si potrebbe obiettare che, con meno verbalità, gli attori hanno meno strumenti per dimostrare il loro talento, ma anche nei film già citati per la preponderanza di dialoghi, gli sguardi ed espressioni di Servillo in Ariaferma, o la rabbia muta di Barbara Ronchi e Fausto Russo Alesi in Rapito, di certo denotano che il mondo attoriale italiano, pur molto più abituato alla dimensione vocale e verbale della performance, può e riesce a dimostrare il proprio talento anche senza l’uso della parola. Disco Boy non emargina Franz Rogowski, che resta sempre un elemento centrale dell’estetica dell’opera, ma riesce a bilanciarne la presenza in favore di altri aspetti stilistici. Il cinema, per le sue limitazioni tecniche, è nato in forma muta, e si è sviluppato come forma artistica distinta nel mutismo degli attori – non nell’assenza totale del suono, che si esprime nella colonna sonora o altri mezzi.. Se vuole mantenere la propria peculiarità, deve tornare ad esplorare il mondo ancestrale del silenzio, specialmente l’assenza delle parole. Un po’ come Paola Cortellesi ha inavvertitamente suggerito nell’epilogo di C’è ancora domani, “a bocca chiusa”.


di Viktor Toth
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