Da La Strada a Io Capitano

Il patrimonio felliniano nel cinema italiano contemporaneo.

Pubblichiamo in questa rubrica, il saggio di Roberta Bellia, Da La Strada a Io Capitano: il patrimonio felliniano nel cinema italiano contemporaneo, primo di quattro ulteriormente selezionati dalla redazione di «Cinecritica» (che parallelamente pubblica il saggio vincitore di Jean Pierre Cretaz) nell’ambito della collaborazione con il XIII Seminario residenziale di critica cinematografica, diretto e condotto da Anton Giulio Mancino. Il Seminario, ideato da Paola Pedrazzini per conto della Fondazione Fare Cinema da lei diretta e del Comune di Bobbio, si è svolto a Bobbio (PC) dal 28 luglio al 6 agosto 2023, all’interno del Bobbio Film Festival nell’ambito del progetto Fare Cinema per la direzione artistica di Marco Bellocchio.

Ai corsisti selezionati dell’edizione 2023, nonché giurati del Festival (Gabriele Armenise, Roberta Bellia, Eva Micaela Bonfante, Mattia Bonifazi, Alice Bonvini, Jacopo Carosi, Federico Carrera, Fabio Cominelli, Marianna Comitangelo, Jean Pierre Cretaz, Antonio De Gioia, Francesco De Gioia, Alessandro Di Matteo, Leonardo Ferretti, Camilla Fragasso, Giulia Galbiati, Alice Gerosa, Matteo Gibellini, Olmo Giovannini, Dario Grisanti, Krizia Loparco, Aurora Malpeli, Samira Mancino, Matteo Masi, Luca Mignacco, Livia Orlandini, Giovanni Pesaresi, Agnese Pieri, Giacomo Pontremoli, Michele Pravato, Valentina Santarelli, Lorenzo Scanni, Davide Secchi, Francesco Sellitti, Valentina Testa, Viktor Toth, Anita Tresca, Valentina Vannelli, Valentina Vignoli), a conclusione del Seminario è stato chiesto di presentare un saggio incentrato su una specifica tendenza del cinema italiano contemporaneo a partire dalla recensione presentata al bando per l’ammissione.

Da La Strada a Io Capitano: il patrimonio felliniano nel cinema italiano contemporaneo
di Roberta Bellia

La crisi del cinema italiano contemporaneo – o, secondo alcuni, addirittura la sua morte – ci porta inevitabilmente a riflettere sugli aspetti che non funzionano all’interno del panorama nazionale. Quando si parla di film italiani presentati nei più grandi festival cinematografici, quasi non possiamo fare a meno di aspettarci il solito dramma sociopsicologico con protagonisti in crisi[1]. Tuttavia, la vera chiave per capire questi film non risiede tanto nella trama quanto nello stile rappresentativo, sovente in bilico tra codici realistici e onirico-poetici. Prendendo come esempio il recente esordio di Jasmine Trinca, Marcel! (2022), ciò che colpisce noi spettatori è l’uso della cinepresa come metafora dello sguardo della giovane protagonista sulla realtà. Non solo siamo nel suo mondo ma guardiamo attraverso esso: anche quando vi sono inquadrature di altri personaggi, la macchina da presa ritorna sempre su di lei oppure si sposta per inquadrare l’oggetto dei suoi sguardi. Le riprese risultano così influenzate dalla sua individualità, come se il film fosse un’intensificazione del suo punto di vista, anche senza la presenza esplicita di inquadrature soggettive. Persino il formato del film, che incornicia ogni fotogramma come fosse una polaroid, ci trasmette questa idea di finestra sul mondo, in cui è la macchina da presa ad organizzare l’azione. Un’operazione simile è quella de L’uomo che verrà (Giorgio Diritti, 2010) in cui gli eventi della strage di Marzabotto, suddivisi in quadri, sono rivissuti dallo spettatore sulla propria pelle attraverso il punto di vista ingenuo di Martina, figlia di una famiglia di contadini che si ritrova coinvolta nell’eccidio. Il regista ci spinge ad intendere il mutismo della bambina durante l’intera narrazione come sintomo di uno sguardo profondamente sensibile che va al di là della violenza intorno a sé, che, in tal modo, si rivela per l’insensatezza e la brutalità che la contraddistingue da sempre.

Questa prospettiva denota una certa tendenza ad incontrare e rinnovare l’eredità di Federico Fellini che, in particolare nella prima fase della sua produzione, enfatizza l’importanza dell’innocenza infantile come input necessario per rinvigorire la nostra fede nella meraviglia dell’esistenza, prima di esperirne i suoi mali e le sue minacce[2]. Questa visione pura e semplice della vita è spesso incarnata da un personaggio, che può essere il protagonista, come Gelsomina in La strada (1954), o rappresentare metaforicamente l’ultimo barlume di speranza per il protagonista, come Paola in La dolce vita (1960). Anche tornando a Marcel!, non possiamo fare a meno di notare che Alba Rohrwacher si muove e si comporta come la malinconica Giulietta Masina de La Strada. Recita ‘’all’arte si deve la vita’’ e, difatti, è incapace di stare a contatto con la realtà, che rifiuta come fa con la figlia: in questo caso, ella assume il medesimo ruolo di Paola, ovvero racchiude la risposta che l’uomo ricerca da sempre ma che non è in grado di accogliere (“cosa cerchiamo se non risposte e ritorni?”[3]).

La poetica felliniana, costellata da atmosfere e personaggi surreali, rimane ancora il riferimento principale per le nuove generazioni di registi, soprattutto nel momento in cui incontra l’immaginario collettivo e si confronta con il degrado della società moderna. Ecco che ‘’Il sogno, l’immaginazione, il ricordo […] finiscono con l’avere il sopravvento sul cosiddetto mondo reale e […] diventano un messaggio indicativo del primato dell’autenticità del mondo interiore rispetto al formalismo e all’automatismo della vita’’[4]. È scontato citare il cinema di Paolo Sorrentino che ha reso e continua a rendere esplicitamente omaggio ai temi e ai modi stilistici dell’autore romagnolo, i quali divengono strumenti cardine di un’indagine sull’odierna società individualista e ossessionata con le apparenze, i cui primi segnali erano stati ritratti ne La dolce vita, all’alba del boom economico. La sua ricerca espressiva trae la sua forza dal ‘’rifiuto del mero mimetismo’’ tramite il quale ‘’rappresenta della realtà il lato più intimo e ombroso, in una messa in scena più obliqua che diretta all’azione’’, pertanto lasciando che la forma prenda il sopravvento sulla storia, rivelandoci le sfumature più nascoste dell’anima dei personaggi, mentre il registro narrativo classico si infrange in ‘’immagini oniricheggianti, frammenti imbevuti di un humour tenebroso e disperato, siparietti farseschi e vere e proprie gag […] particolari rivelatori, immagini rapide pulsanti di sensazioni e visioni rarefatte – in un décor studiato fino all’ultimo dettaglio’’[5].

Attraverso film come Amarcord (1973), Fellini “ci ha insegnato a non avere paura delle presenze inquietanti nella nostra storia collettiva, ma ad avvicinarle, ad esplorarle proprio in quanto parte di noi stessi” [6] e, se ‘’la realtà è scadente’’, come recita Fabietto in È stata la mano di Dio (Paolo Sorrentino, 2021), è compito del regista reinventare il mondo attorno a sé per essere in grado di comprenderlo. È il caso di Sicilian Ghost Story (Antonio Piazza, Fabio Grassadonia, 2017) che dimostra che quando le pagine di attualità diventano insostenibilmente oscure, bisogna affrontarle da un’altra prospettiva per non permettere vadano ignorate. Infatti, i due registi inseguono l’ambizioso obiettivo di trattare dell’omicidio di Giuseppe Di Matteo in una perfetta commistione tra fiaba e storia dell’orrore, in cui i motivi mitici ricorrenti come la presenza costante di animali ed elementi naturali diventano presagi di morte. Nei momenti più critici, dal freddo omicidio alle indagini della giovane Luna, la cinepresa non si appresta a seguire i personaggi ma resta lontana o li inquadra dall’alto, come se volesse prendere le distanze dalla storia per lasciare spazio a qualcosa di più alto. La potenza del film risiede proprio nel fatto che tutte le scene sembrano far parte di una lunga visione onirica portata avanti dalla protagonista, come se quella sofferenza non appartenesse più a due adolescenti che stavano vivendo la loro favola d’amore, come dimostra la sequenza in cui Giuseppe si guarda inerme dall’esterno dopo aver espresso l’impossibilità di continuare a sognare, anticipando il suo tragico destino.

Restando sulla medesima linea, possiamo accostare il recentissimo Io capitano (2023) in cui Matteo Garrone affronta una problematica più attuale che mai, costruendo atmosfere chimeriche pur senza lasciarsi indietro uno sguardo fortemente critico. L’acclamato regista fa un bilancio della sua carriera, muovendosi tra la cruda denuncia di Gomorra (2008) e la narrazione fantastica di Pinocchio (2019): le singole persone che hanno ispirato le storie collettive al centro della narrazione diventano protagonisti di un viaggio di formazione di stampo quasi magico. Eppure, i giovanissimi personaggi del film non potrebbero essere più vicini alla realtà, percepiti dal pubblico nella loro interezza tra sogni genuini, speranze e desideri più intimi: tutto ciò che rende loro esseri umani. In fondo qual è il rapporto tra realtà e immagine? Il ruolo del cinema, da sempre situatosi sul labile confine tra verità e fantasia, non è sempre stato quello di indagare le contraddizioni dell’uomo? Ecco che quando la società si fa sempre più incomprensibile ai nostri occhi, bisogna fermarsi e osservarla da una prospettiva innocente nella quale l’immaginazione risulta solo una delle tante facce di un reale in cui bene e male si contrappongono ancora nettamente ma, come sosteneva Fellini, la soluzione è lasciata allo spettatore[7].


[1] M. Cucco, G. Manzoli, Il cinema di Stato. Finanziamento pubblico ed economia simbolica nel cinema italiano contemporaneo, Il mulino, Bologna, 2017

[2] P. Harcourt, Six European Directors: Essays On the Meaning of Film Style, Penguin, Londra, 1974

[3] Marcel!, J. Trinca, Italia, Francia, 2022

[4] E. Bispuri, Federico Fellini. Il sentimento latino della vita, Il ventaglio, Roma

1981

[5] F. Vigni, La maschera, il potere, la solitudine. Il cinema di Paolo Sorrentino, Firenze, 2017

[6] G. P. Brunetta, Il cinema italiano contemporaneo: Da “La dolce vita” a “Centochiodi”, Laterza, Bari 2007

[7] ‘’I believe that everyone has to find truth by himself…That is…The reason why my

pictures never end. They never have a simple

solution. I think it is immoral (in the true sense

of the word) to tell a story that has a conclusion. Because you cut out the audience the

moment you present a solution on the screen.

Because there are no “solutions” in their lives. […] every

one, with his own sensibility and on the basis of

his own inner development, can try to find his

own solution.’’

P. Harcourt, Six European Directors: Essays On the Meaning of Film Style


di Roberta Bellia
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