Film da rivedere: Sbatti il mostro in prima pagina di Marco Bellocchio
Partiamo pure dell’ultima inquadratura, un’altra significativa icona degli anni settanta: in quella precedente il totale di una chiesa mostra i rappresentanti della peggior borghesia milanese durante una cerimonia funebre. Il prete pronuncia la fatidica frase “andate in pace”. Stop.
In un canale periferico l’acqua putrida porta con sé placidamente ogni sorta di rifiuti urbani. La spiccata valenza simbolica (evidente nell’equazione “borghesi=rifiuti”) nasconde un’indubbia carica profetica: quella stessa borghesia, reazionaria e oscurantista, si è perfettamente radicata sul territorio, diventando perfino borghesia di potere che vorrebbe assoluto.
Significativo invece che Sbatti il mostro in prima pagina, a suo tempo molto maltrattato dalla critica, si apra con un altro “fiume”, il corteo funebre di Giangiacomo Feltrinelli (“compagno Feltrinelli sarai vendicato …..”), mentre non lontano un giovanissimo Ignazio La Russa arringa la folla sui valori sacri dell’anticomunismo.
Al film si rinfacciava un ostinato schematismo ideologico che si esprimeva con forzature nei caratteri dei personaggi. Eppure la volontà di coniugare l’affresco politico d’attualità con l’indagine poliziesca si rivela, nonostante l’apparente ambiguità linguistica, uno scandaglio funzionale alla messinscena dei subdoli meccanismi utilizzati dall’opposizione fascista, non per fare necessariamente un cinema popolare, come purtroppo lo intendiamo oggi, ma un cinema “diretto” o politico, se si preferisce, che potesse giungere al pubblico come un pugno allo stomaco.
Ma c’era allora la questione di un cinema militante, che rifiutava sistematicamente tutte le possibili convenzioni narrative, mentre il film di Bellocchio certamente assume talune convenzioni spettacolari (a partire dalla presenza totalizzante dell’attore feticcio Gianmaria Volonté che qui, come in Todo modo e in Indagine di un cittadino al di sopra di ogni sospetto, entrambi di Elio Petri, lavorava su un personaggio “negativo”, ma straordinariamente duttile) pur nella consapevolezza della confusione di codici narrativi, ma al tempo stesso della loro efficacia come espediente narrativo.
E all’interno di questo difficile equilibrio di elementi, anche dialetticamente contrapposti, egli riesce ugualmente a trasmettere il clima dell’epoca, il disagio delle istituzioni, l’ansia di un conflitto sociale che di lì a poco sfocerà nella lotta armata, la natura violenta delle forze in campo, l’autoritarismo poliziesco sempre schierato con i poteri forti dello Stato, l’ambiente dei compagni di Lotta Continua osservato senza eroismi né retorica, e alcune figure più convenzionali e schematiche come la “anarchica nevrotica” Rita Zigai, interpretata da un’ottima Laura Betti, il timido e ingenuo giornalista Roveda, vittima del disegno strategico del suo capo redattore Bizzanti e infine il bidello “segaiolo”, l’assassino della ragazza bene che crede a tutto quello che pubblica il suo giornale.
Sopra tutti questi soggetti deboli domina e gigioneggia appunto la figura di Bizzanti, perfetto fascista in doppiopetto, a cui Volontè presta tutto il proprio istrionismo perché risulti lui il vero mostro (e non quello “costruito” dal potere poliziesco, “un compagno un po’ sbandato che ad un certo momento del film ci rammenta, con malinconico sarcasmo, che Milano è o è stata capitale morale del paese, e neppure il vero assassino”). Mai così superbo Volontè come nella parte di un imperturbabile mostro, nascosto dietro la maschera del perbenismo e della normalità.
di Redazione