Festival di Cannes 2001: il risveglio del cinema italiano

La consacrazione di Nanni Moretti a Cannes è anche la conferma di un risveglio, a lungo vagheggiato e sperato, dell¹intero cinema italiano.
Inoltre, lo spazio dato in concorso a Olmi, la presenza di Infascelli, Archibugi, Gaglianone, Cristina Comencini, chiamati a difendere i nostri colori nelle sezioni parallele, è il segno di una rinnovata attenzione verso la nostra cinematografia, negli ultimi anni occasionalmente rappresentata da autori già consacrati come Amelio, Benigni, lo stesso Moretti, o da altri in cerca della definitiva affermazione quali Ricky Tognazzi, Calopresti, il naturalizzato italiano Ozptek.
La stampa internazionale non ha mancato di segnalare gli aspetti di questa rinascita, soffermandosi tuttavia anche sui tranelli da evitare perché essa non si riveli illusoria. E’ presto per parlare di fine di una crisi durata protratta negli anni, sottolineavano a Cannes i giornalisti stranieri, allineati nel giudizio con il parere dei produttori e distributori internazionali.
Il cinema italiano infatti, agli occhi degli addetti ai lavori degli altri paesi, deve dimostrare d’ora in avanti di saper affrontare argomenti di ampio respiro e il film di Moretti è proprio l’esempio di come un tema universale arrivi a qualsiasi platea e di essere in grado di correggere la miopia che spesso ha guidato le coproduzioni.
Le strutture pubbliche e private si limitano troppo spesso a chiudere dei pacchetti produttivi con altri paesi europei, ma non amano il rischio, laddove molto ci sarebbe da imparare dalle recenti esperienze di “Fabrica” nuovamente premiata grazie a No Man’s Land di Danis Tanovic – e soprattutto da una politica di apertura che caratterizza, ad esempio, il cinema francese.
Proprio la Francia rappresenta un caso emblematico, che molto dovrebbe far riflettere. Se è un dato di fatto che il cinema francese presente alla 54° edizione del Festival di Cannes ha largamente deluso, è altrettanto vero che la produzione d’oltralpe resta vitale e combattiva, anche in forza dei legami economici stretti con produttori e registi di mezzo mondo. Molti dei film di Cannes battevano del resto bandiera francese, anche quando realizzati da autori di altra nazionalità. Alain Sarde, uomo di cinema tra i più noti, ha prodotto La pianiste di Haneke e Mulholland Drive di Lynch.
Una coproduzione con il Giappone è l’interessante opera prima di Nobuhiro Suwa H Story, storia della lavorazione di un immaginario remake di Hiroshima mon amour.
La stanza del figlio nasce da un accordo italofrancese. E persino Tsai Ming Liang, regista taiwanese vincitore di un Leone d’oro con Vivre l’amour, ha reso un personale omaggio alla nouvelle vague ambientando metà del suo film a Parigi e chiamando Jean Pierre Léaud a impersonare se stesso in una fugace quanto toccante apparizione. Il segreto di tanta vitalità va però ben oltre gli omaggi e i titoli di Cannes, ed è nella capacità di sapersi concentrare su progetti vendibili già sulla carta senza rinunciare alla propria identità nazionale. Lasciando da parte il cinema d¹autore che si avvale di meccanismi produttivi particolari, non c’è bisogno di arrivare a girare film in inglese, come a suo tempo auspicato da Dino De Laurentiis, per esportare i propri prodotti. La chiave del successo per muoversi tra qualità e cassetta sembra conoscerla di nuovo Alain Sarde, che al Marché ha ampiamente recuperato il costo del kolossal Belphégor, con la star Sophie Marceau, ma pure finanziato Eloge de l’amour di Godard, 6 miliardi difficilmente recuperabili ma ripagati grazie ai soldi derivanti dai prodotti più popolari.
di Angela Prudenzi