Fantasmi del passato: la commedia all’italiana come filtro della percezione dell’identità contemporanea
Volendo provare a definire una tendenza identitaria del nostro cinema nazionale, è facile imbattersi in proiezioni del passato, in ombre sotto le quali le creazioni cinematografiche contemporanee sono costrette a vivere, al riparo da ogni possibilità di rigetto dalle case di produzione, ma alla mercé delle accuse di prosaicità e prevedibilità della critica. Tra tutti, forse, il fantasma più tedioso – soprattutto per i giovani cineasti in cerca di rispettabilità artistica – è quello del neorealismo, a cui gli occhi dei critici ancora guardano con nostalgia, cercando di scrutarne le tracce nelle produzioni più recenti. Tuttavia, a ciò che riesce a sfuggire alle morse del cinema del dopoguerra, viene solitamente assegnata la più accogliente e generica etichetta di “commedia”: non è un caso che, tra le pellicole italiane di tutti i tempi con i maggiori incassi al botteghino, trabocchino film contrassegnati come tali. Da Quo Vado a Che bella giornata, Checco Zalone e Gennaro Nunziante dominano le prime posizioni della classifica, delineando un quadro preciso della situazione italiana sul piano cinematografico, e forse non solo. Anche a seguito di una superficiale analisi delle informazioni che questi dati ci forniscono, la deduzione più ragionevole sarebbe quella di individuare consequenzialmente un orientamento dei gusti del pubblico italiano verso una determinata area tematica o di genere, e difatti non si tratta di una strada del tutto errata; ad ogni modo sarebbe necessario, in aggiunta, indagare la varietà di contenuti a cui l’offerta cinematografica nostrana garantisce l’accesso nelle sale. Entrambi i percorsi, in verità, ci porterebbero allo stesso esito d’analisi: il mercato del cinema italiano è un circolo vizioso in cui chi produce e finanzia non ama scomodarsi e preferisce piuttosto muoversi in territori sicuri; d’altro canto questa sicurezza deriva da un responso piuttosto unanime da parte del pubblico italiano che, oltre ad essere comprovato dai risultati al box office, è anche frutto di un più profondo e inconscio meccanismo di identificazione collettiva. Le configurazioni narrative delle commedie più di successo degli ultimi anni, dalle nazional-popolari di Nunziante e Medici fino alle più tradizionali di Virzì, tematizzano un vasto spettro di realtà spesso e volentieri vicine al pubblico italiano medio: disoccupazione, immigrazione, corruzione, criminalità organizzata, e chi più ne ha più ne metta. Insomma, se non vogliamo parlare di qualunquismo, forse potremmo parlare di un “impegno disimpegnato”, un tentativo di assecondare dei malesseri profondamente radicati nelle coscienze degli italiani, più che di mettersi in gioco per risolverli o per offrirgli autorevolezza. Il più recente Tolo Tolo, per fare un esempio illustrativo della filmografia zaloniana, fa del semplicismo stereotipato la sua cifra stilistica, problematizzandolo, certamente, ma senza necessariamente prenderne le distanze: la dicotomica contrapposizione bene-male prende il sopravvento nell’epilogo, facendo trionfare – nonostante il pessimismo cronico del film – un senso di solidarismo umanitario. Non è complesso, dunque, per lo spettatore riuscire a rispecchiarsi nell’ampio ombrello di tematiche e di valori discussi da Zalone, sorge però quasi spontaneo domandarsi se questo processo di immedesimazione si fondi davvero su dei presupposti identitari o se, al contrario, sia il frutto di un processo di disidentificazione di massa, di stereotipizzazione.
Il caso italiano è forse uno dei più interessanti da analizzare in questo senso: da sempre il nostro territorio e la sua popolazione hanno subito una forte caratterizzazione dai tratti stilizzanti, che ha condotto alla creazione di un immaginario di italianità convenzionale, a cui globalmente si tende a fare riferimento quando si parla del nostro Paese. Negli ultimi decenni la globalizzazione ha acuito questo processo ai danni delle identità culturali di tutto il mondo, contribuendo ad indebolirle e renderle sempre più riconducibili a pochi tratti standardizzati. Il sottile confine tra identità e stereotipo, dunque, sembra andato del tutto perso: l’immaginario a cui fa riferimento, ormai, anche la stessa industria cinematografica italiana sembra non essere lontano da quello restituito in Fantozzi di
Luciano Salce, in particolare nella celebre scena in cui dei campeggiatori tedeschi zittiscono il protagonista esclamando: «Italiani sempre rumore! Sempre cantare chitarra e mandolino». Se nel 1975, però, la commedia all’italiana aveva un referente identitario ben definito – ossia un’Italia che, massivamente, stava ancora vivendo i grandi cambiamenti economico-sociali comportati dall’espansione economica iniziata negli anni Sessanta – il cinema italiano contemporaneo ha a che fare con una realtà socio-culturale ben più frammentaria che, insieme alla spersonalizzazione identitaria, ha perso i suoi valori comunitari e si caratterizza di uno spiccato individualismo. I princìpi che regolano la commedia all’italiana, se applicati alla realtà contemporanea, perdono dunque un referente organico e finiscono per svuotarsi di significato. Un esempio lampante, tra tutti, è forse il cinema dei fratelli Vanzina, i quali in Caccia al tesoro – la loro ultima collaborazione di sempre – dimostrano di essere rimasti ancorati ad un cinema dei clichè, un cinema che accontenta il pubblico ma che non è in grado di soddisfarlo, perché sembra ormai aver perso qualsiasi contatto con la realtà.
Se da una parte il cinema italiano è consapevole del peso che la commedia ha nel corredo culturale nazionale – tanto da essere diventata probabilmente essa stessa un simbolo di quell’immaginario di italianità stereotipato citato precedentemente –, i suoi termini e mezzi espressivi faticano ad amalgamarsi con le esigenze di innovazione del cinema contemporaneo. Siccità di Paolo Virzì è il film che meglio esemplifica questo disagio: qui l’obiettivo del regista livornese sembra essere quello di creare un film distopico “all’italiana”, ossia di snaturare un filone sviluppato prevalentemente nel cinema hollywoodiano, adornandolo con elementi di comicità convenzionalmente riconducibili al nostro cinema popolare. Il risultato a molti è sembrato una forzatura di due linguaggi piuttosto lontani tra loro, costretti a coesistere in un unico corpo filmico che tende a prendere le distanze dalla disarticolata realtà contemporanea, proiettandosi nell’astrazione di un immaginario evento futuro. Difatti, nonostante risultino chiari i riferimenti ai fenomeni della pandemia globale o dei cambiamenti climatici, l’elemento distopico inserito sembra più assimilabile ad un diversivo che aiuta il film a far dimenticare allo spettatore la complessità del mondo reale, facilitando così la costruzione di un universo diegetico più semplice da raccontare e da rappresentare, in quanto governato da leggi interamente nuove e dettate dal regista stesso: qualsiasi crisi o conflitto sociale realmente esistente soccombe dinnanzi ad un unico e grande problema pseudo-utopico, che è lo stesso che poi dà il nome alla pellicola. Nel più recente C’è ancora domani, il tentativo di Cortellesi di coniugare gli aspetti della commedia con un racconto di natura diversa – ossia quella del dramma quasi neorealista – sembra avere più successo. Sicuramente a facilitare l’operazione è la maggiore compatibilità delle strutture narrative che caratterizzano i due generi; ma è altrettanto interessante notare come, anche in questo caso, per riuscire nell’intento Cortellesi colloca il racconto in uno spazio diegetico dai tratti fittizi, che confonde il passato con il presente provocando la perdita di un referente reale.
È forse la commedia all’italiana, allora, l’altro molesto spettro che perseguita il cinema italiano contemporaneo insieme al neorealismo, ma se quest’ultimo ne monitora i contenuti sul piano qualitativo, la prima sembra piuttosto essere l’ingrediente segreto per il successo al botteghino. È come se il binomio neorealismo-commedia costituisse un duo infallibile, in grado di mettere d’accordo il pubblico e la critica, e questo probabilmente spiega anche gli ottimi risultati ottenuti dalla sopracitata opera prima di Paola Cortellesi. Tuttavia, in questo modo, la risata perde la carica eversiva che invece la contraddistingueva quando risuonava nelle sale della seconda metà del secolo scorso: il cinema di Monicelli, Risi e dei tanti altri grandi nomi della commedia all’italiana, lavorava anche in funzione della riappropriazione dell’identità storica nazionale, a seguito di decenni di conflitti e fermenti sociali. L’ostinazione del cinema contemporaneo nel riciclare degli stilemi appartenenti al passato, oltre a svuotare di significato questo processi identificativi, rischia di diventare (o forse già lo è) un limite per le nostre
produzioni, in quanto non favorisce lo sviluppo di un sistema-cinema in grado di reggersi autonomamente sulle proprie gambe, e non su quelle dei suoi antenati. È proprio per questo motivo che le nostre commedie contemporanee, anche le più geniali, perdono di credibilità, non solo all’estero ma anche e soprattutto in patria: ed è così che Smetto quando voglio sui giornali è diventato il Breaking Bad “all’italiana”, o che lo stesso Siccità è stato recepito come un adattamento italiano del film dell’americano McKay, Don’t Look Up. Se la forzatura comica – considerabile ormai una vera e propria tendenza nel cinema italiano contemporaneo – rischia di far apparire le nostre produzioni come delle caricature parodiche o di seconda mano, forse è necessario riconsiderare il rapporto con le radici del nostro cinema e con la nostra identità culturale.
di Fabio Cominelli